web il salutare altruismo del sotfware



dal manifesto

    
    
 
    
 

13 Gennaio 2002 
  
 
   
Il salutare altruismo nel software 
La "Tragedia dei Commons", ovvero la distruzione di risorse naturali senza
proprietari (quindi collettive, del genere umano) per eccesso di egoismo
individuale. Il software Open source - collaborativo e "comunitario" -
mostra una via per evitare che quel destino si ripeta 
FRANCO CARLINI 

Nel 1625 il filosofo olandese Hugo Grotius scriveva: "l'estensione
dell'oceano è talmente grande che esso soddisfa ogni possibile uso da parte
delle genti per trarne acqua, per pescare, per navigare". Allora sembrava
sensato, ma le generazioni successive si sarebbero incaricate di smentirlo
concretamente. Oggi la pratica scomparsa dei grandi banchi di pesci che
popolavano l'oceano Atlantico è forse l'esempio più noto di "tragedia dei
beni comuni": quando un bene è di tutti e di nessuno - come nel caso dei
pesci del mare, dell'acqua o della legna dei boschi - può scattare il lato
peggiore e meno previdente dell'Homo oeconomicus: ogni individuo cerca di
massimizzare il proprio interesse personale e, per effetto della somma di
migliaia o di milioni di comportamenti egoistici, quello che era un bene di
tutti viene eroso. Alla fine non ce n'è più per nessuno. Altro che il
macellaio di Adam Smith, che facendo il suo interesse genera anche
l'interesse generale.
"The Tragedy of Commons" è il titolo di un famoso saggio pubblicato dallo
studioso Garret Hardin nel lontano 1968 sulla rivista "Science". Stimolò
molte ricerche e vasto interesse perché apparve per così dire geniale nel
suo pessimismo: il comportamento "razionale" dei singoli (cerco di avere il
massimo di benefici per me stesso) porta a un risultato complessivamente
disastroso, una tragedia appunto. Apparentemente, spiegava Hardin, il
vantaggio individuale nell'aggiungere un'altra pecora al proprio gregge che
pascola su terreni comuni è alto, perché il danno eventuale, legato a un
deterioramento del terreno per eccesso di pascolo, viene ripartito tra
tutti gli allevatori, mentre della singola pecora in più beneficia solo il
singolo. E' lo stesso meccanismo della cena tra amici dove il conto viene
suddiviso in parti uguali: ognuno è tentato di ordinare aragosta, anche se
molto costosa, perché il prezzo elevato verrà distribuito tra molte teste.
Ma se tutti aggiungono pecore, o se tutti ordinano aragosta, il sistema
salta: non c'è più erba per nessuno (o il conto del ristorante diventa
stratosferico, al di là dei portafogli dei singoli). Da sinistra questo
ragionamento è stato utilizzato come un buon supporto teorico per politiche
di tipo statalista e interventista. A sua volta Hardin, che è professore di
ecologia umana all'università di California a Santa Barbara, nel 1999
riprendeva il filo del ragionamento, affermando che non c'erano soluzioni
intermedie: o il socialismo o il pieno dispiegarsi della libera impresa. In
ogni caso la spontaneità da sola non era in grado di garantire una gestione
sostenibile e prolungata nel tempo di beni via via più scarsi perché più
richiesti.
Le cose in realtà sono più complicate e tra i due estremi esistono molte
varianti intermedie, sia dal punto di vista della proprietà che da quello
dei diritti di accesso. E nei trent'anni che sono passati dal saggio di
Hardin, per esempio, è cresciuto l'interesse di economisti, sociologi e
antropologi per i fenomeni dell'autogestione locale. Gli abitanti del
nostro Appennino, che per secoli hanno gestito le "comunaglie" (il nome
italiano dei commons) secondo forme originali di ripartizione degli oneri e
dei benefici sono uno dei tanti esempi. Un bosco da legna può essere un
bene prezioso per una comunità montana, ma solo a patto che nessuno tagli
più del dovuto e del suo bisogno - e naturalmente ciò è tanto più vero se
la popolazione è stabile e non ci sono nuovi entranti a premere e a
stressare la risorsa. Lo stesso vale per le regole di pesca in certi fiumi
canadesi, dove le popolazioni locali hanno sempre saputo preservare la
risorsa per le generazioni future grazie a un sistema basato sui saggi del
villaggio, ultimi arbitri del conflitto. Non è nemmeno detto che siano
sempre necessarie delle forme particolarmente rigide e coercitive di
controllo e punizione: nei casi migliori non c'è bisogno di leggi speciali,
né di poliziotti; è sufficiente invece la riprovazione o l'approvazione
sociale che la comunità esercita nei confronti degli egoisti o dei
responsabili.
Altrettanto interessanti appaiono le ricerche condotte dagli antropologi.
La popolazione Aché del Paraguay dell'Est offre, per esempio, un caso
incredibile di altruismo e egualitarismo. Coloro che l'hanno studiata hanno
verificato che i tre quarti circa di ciò che un singolo individuo mangia
non provengono dall'interno del gruppo familiare, ma da meccanismi sociali
di distribuzione e di gratuità sociale.
Da questo e da altri esempi Samuel Bowles e Herbert Gintis del Mit traggono
la conclusione ottimistica che "l'eguaglianza non è affatto passata di
moda". La vera natura della specie umana non sarebbe affatto quella di
economicus, ma quella di Homo reciprocans: collaborativo e sociale. Se oggi
welfare e programmi pubblici di assistenza non sembrano particolarmente
apprezzati dall'opinione pubblica ciò non dipende dall'intrinseco egoismo
dei cittadini benestanti, quanto dalla scarsa fiducia e credibilità dei
programmi stessi.
Christopher Boehm, primatologo, e Bruce Knauft, antropologo, vanno ancora
più in là: l'uomo si comporta così da almeno 100.000 anni: "gli indizi
dell'archeologia suggeriscono che almeno dal Paleolitico superiore erano
diffuse reti di protezione e di sostegno per il trasferimento delle
risorse" tra i membri di una stessa comunità. "La forte internalizzazione
di un'etica condivisa era per molti aspetti un sine qua non delle culture
di queste società". Va anche detto che solo in parte la soluzione sta nella
questione proprietaria: in molti dei casi analizzati nell'ampia rassegna
appena pubblicata da alcuni studiosi dell'Università dell'Indiana a
Bloomington risulta evidente non soltanto che quasi sempre i metodi
statalisti hanno fallito, ma che altrettanti fallimenti sono imputabili
alla proprietà individuale.
Un caso particolarmente clamoroso è quello della Mongolia: nelle zone a
gestione statale della vicina Cina e Siberia, il degrado ambientale è ben
evidente, mentre in quella parte della Mongolia dove ancora vivono i
meccanismi di gestione della pastorizia di tipo tribale, il territorio è
rimasto molto più protetto. Il fatto è che per tutelare un bene comune
occorre non soltanto sentirlo come proprio e poterne usufruire in
autogestione, ma anche conoscerlo intimamente. Nel Nepal un generoso
progetto di razionalizzazione dei canali di irrigazione si è tradotto, a
conti fatti, in una minore efficienza del sistema agricolo. Paradossalmente
le moderne canalizzazioni di cemento sono risultate meno utili dei vecchi
canali scavati nel fango dalle popolazioni locali con grande fatica. Come
mai? Probabilmente perché c'era un sapere diffuso riguardo alla
microgestione del territorio che i moderni ingegneri non avevano nemmeno
intuito. E c'erano meccanismi di manutenzione del bene comune (i canali)
che il nuovo sistema non ha sostituito con nulla.
L'insieme di questi ragionamenti potrebbe suggerire - e di fatto suggerisce
ad alcuni - un orizzonte nostalgico comunitarista basato sulle comunità
locali, ma sarebbe ovviamente un'illusione retrograda. Dal passato si deve
imparare, ma l'esperienza insegna che non può essere quasi mai riproposto
come modello attuale e praticabile su vasta scala. Oltre a tutto quando un
common è a dimensione planetaria (come lo strato di ozono) non esistono
evidentemente soluzioni micro. Sono necessarie istituzioni (comunità) a
scala del pianeta. Dopo trent'anni di ricerche sulla tragedia dei commons e
di accresciuta sensibilità ambientale, alcune cose sono più chiare e
diversi strumenti sono disponibili che prima non c'erano. E le tecnologie
della comunicazione permettono ad esempio un monitoraggio costante e un
flusso quasi istantaneo di informazioni su chi consuma che cosa e dove. Su
chi abusa e chi no, su chi coopera e chi al contrario privatizza
egoisticamente.
La Tragedia dei Commons storicamente è stata evitata non già con leggi
scritte (che non c'erano), né con poliziotti o guardiaboschi, ma in base
alle regole non scritte di controllo sociale, spontaneamente emerse dalla
comunità: approfittare del bene comune fino a depauperarlo era un fatto
colpito da riprovazione sociale, che poteva anche portare all'espulsione (o
all'isolamento sociale) dell'autore. Viceversa, spiegano gli antropologi,
il sistema del dono nacque probabilmente come un meccanismo di
distribuzione egualitaria delle eccedenze in situazioni di abbondanza,
oppure (e viceversa), per ottimizzare l'uso di risorse scarse. Su questo la
discussione è aperta e lungi dall'essere conclusa (un'ottima rassegna si
trova nel recente libro di Berra e Meo, "Informatica solidale" (Bollati
Boringhieri, 2001).
Insomma, l'altruismo (o l'egoismo) e la cooperazione (o la diserzione)
possono essere studiati seriamente solo in un contesto di relazioni. Se in
una comunità la maggioranza delle persone è collaborativa, allora l'essere
altruisti verrà più facilmente sentito come un valore; diversamente le
persone si chiedono: "devo essere io l'unico fesso?". Come sovente accade,
si innescano dei cicli di esaltazione o di depressione (dei feedback
positivi o negativi). Praticare l'altruismo - per esempio nella produzione
e condivisione di software - è anche un modo per incentivare l'altruismo
degli altri: all'interno del gruppo diventa un valore comune e una pratica
diffusa. Viceversa una pratica di egoismo spinge ognuno a accaparrare per
sé e contemporaneamente a deteriorare il patrimonio comune, sia
consumandolo senza freno sia privatizzandone delle quote. In tutto ciò ci
sono ovviamente larghi margini di ambiguità; il dono può diventare un
obbligo, non imposto con la forza delle leggi, ma dai meccanismi di
pressione sociale. Ma nello stesso tempo porta con sé un interesse, dato
che si potrà usufruire di un ambiente comune: tutti donano, mettono in
comune e difendono un patrimonio pubblico. Vista nel campo del software:
non si diventa finanziariamente ricchi vendendo software, ma si può godere
di un patrimonio di programmi utili senza spendere nulla.