il mondo al crepuscolo dello stato



dal corriere della sera
 Giovedì 27 Dicembre 2001 
 
 
L’idea di nazione omogenea e organizzata, figlia del pensiero europeo, era
già stata corrosa da entità regionali e trasversali. Ora, secondo lo
storico Reinhard, è in agonia

Il mondo al crepuscolo dello STATO

di ADRIANO PROSPERI


Stato: una parola di cui da tempo avvertiamo la mancanza. Non poterla usare
è un vero problema per la comunicazione. E pazienza per i più anziani, per
i quali è solo uno dei tanti segnali che il mondo, per loro, sta diventando
un paese straniero. Ma la questione riguarda tutti perché la parola in via
di scomparsa non è ancora sostituita in modo adeguato. Si pensi
all’argomento che occupa il nostro presente: la guerra. Una volta era
semplice: uno Stato dichiarava guerra a un altro, vincitori e perdenti
erano sempre e comunque uno o più Stati. Indicando uno Stato si
condensavano tante cose in una: territorio e popolazione, confini,
bandiera, lingua, cultura, religione, istituzioni. E c’erano uomini che ne
incarnavano l’essenza: sovrani o presidenti, ministri o capi politici,
erano detti tutti statisti o anche uomini di Stato (solo uomini, non
esisteva l’equivalente femminile). Oggi, scomparsa la parola chiave,
dobbiamo muoverci nelle nebbie di incerte perìfrasi: si fa la guerra contro
il terrorismo, eserciti plurinazionali affrontano etnie e religioni, si
muove non più per la patria ma per idee che ignorano confini nazionali e
frontiere statali. 
Gli uomini di Stato ci sono ancora, ma - così come gli spazzini sono
diventati operatori ecologici - si chiamano operatori di pace e ricevono a
turno il Nobel per aver combattuto non altri stati o altri popoli ma i
mostri senza volto e senza confine che popolano la terribile mitologia del
presente: terrorismo, razzismo, pulizia etnica, apartheid, genocidio. In
tutto questo, noi europei siamo un po’ defilati, come una Svizzera del
mondo. E viviamo una fase di passaggio. Abbiamo ancora degli Stati: ma
sotto e sopra di loro, si avanzano altri poteri: per le leggi e
l’amministrazione ci sono le Regioni e gli organismi dell’Unione europea,
per l’esercito e la guerra c’è la Nato. Per ultimo, se ne sta andando in
soffitta quello che è stato il primo simbolo del potere statale: il diritto
di batter moneta. Con l’euro, a giorni la gente si rigirerà tra le mani
valori e simboli indecifrabili di un potere che non è più lo Stato di cui
continuiamo a essere cittadini e non è ancora compiutamente quello che ci
auguriamo diventi: qualcosa di meglio, di più adeguato ai nostri bisogni,
di più vicino alle nostre esigenze. 
E tuttavia, in Europa l’orizzonte è ancora dominato dagli Stati. E questo
perché lo Stato è un’invenzione europea. Da questa premessa parte Wolfgang
Reinhard in un’opera capitale ( Storia del potere politico in Europa ,
editore Il Mulino, pagine 800: ma sarebbe stato meglio tradurre «Storia
dello Stato»): una vera «summa», uno sforzo gigantesco di rielaborazione
delle conoscenze storiche a cui da ora in poi dovranno rifarsi tutti coloro
che vorranno parlare o scrivere di Stato con cognizione di causa. Dunque,
si potrebbe parafrasare il titolo del celebre scritto di Novalis: non
«Cristianità cioè Europa», ma «Stato cioè Europa». È nato in Europa. E qui
è morto, o almeno agonizza (la data della morte presunta si colloca,
secondo Reinhard, sullo scorcio finale del secolo XX, fra gli anni 1970 e
1980). È nato da radici diverse: le tradizioni di monarchia militare
germanica, i fondamenti classici (pensiero greco e diritto romano)
veicolati dalla Chiesa cristiana e - terzo ma non ultimo - l’idea di
sovranità messianica della Bibbia ebraica e cristiana. Muore per effetto
dell’emergere di nuove aggregazioni per certi aspetti più vaste,
sovrastatali, per altri invece più ridotte, di tipo etnico, microregionale.
E oggi, la costruzione europea balbetta e si arena proprio per lo scontro
fra modelli inconciliabili, quello centralistico francese e quello di
decentramento informale della tradizione inglese (come ha segnalato di
recente lo storico del pensiero politico Larry Siedentop, in La democrazia
in Europa ). 
Intanto, nel suo percorso l’idea di Stato ha costruito quella realtà
storica e non geografica che è l’Europa. Reinhard analizza caratteri e
percorsi del potere statale, prendendo atto della realtà effettuale (come
avrebbe detto Machiavelli) e non dell’immagine corrente. Di tale realtà fa
parte, ad esempio, il fatto che si tratta di una storia da cui le donne
sono escluse: la politica è stata sempre fondamentalmente «una questione di
uomini». La ricchezza delle informazioni raccolte con un poderoso sforzo di
controllo di una sterminata letteratura va qui di pari passo con la
penetrazione delle domande, che nascono da una viva attenzione al presente:
le dimensioni europee e la lunga durata di problemi come i rapporti tra
potere politico e amministrazione della giustizia (inclusa la questione
della separazione delle carriere e dei rapporti tra giudici e avvocati), la
fiscalità e l’economia sommersa, le radici locali e la proiezione centrale
del potere clientelare, sono solo alcuni tra i robusti ancoraggi del
passato al presente che reggono la possente architettura dell’opera. 
Sulle soglie di questa opera imponente c’è un documento che viene in mente
a un lettore italiano: è una lettera datata 26 aprile 1478. La scrisse
Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, appena sfuggito all’attentato che
durante la Messa solenne in Duomo era costato la vita di suo fratello
Giuliano: «In questo punto - scrisse Lorenzo, invocando l’aiuto dei duchi
di Milano suoi alleati - m’è stato morto mio fratello et sono in
grandissimo pericolo dello stato mio». Nacque così, in un momento
drammatico, quel termine «Stato» in cui si racchiude il contributo
originale dell’Europa alla storia del potere politico: il pensiero di quel
ricco e geniale erede di una famiglia di banchieri e di mercanti corse
allora non alla vita sua ma al regime che andava costruendo per sé e per i
suoi eredi. 
Dunque la precoce invenzione del termine, come riconosce Reinhard, spetta
all’Italia. Ma, tanto in Italia quanto in Germania, lo Stato sovrano doveva
diventare realtà solo nel XIX secolo. Singolare contraddizione: in questi
due paesi, dove lo Stato moderno ebbe la gestazione più lunga e difficile,
la sua vittoria culturale fu strepitosa. Se Machiavelli, riflettendo sulla
mancanza di un Principe capace di unificare l’Italia, inventò la moderna
scienza della politica, nella Germania dell’800 spettò a Hegel definire lo
Stato come «la totalità etica», il fine stesso della storia del mondo. 
Che tocchi proprio ad uno storico di esperienza internazionale ma di salde
radici tedesche affrontare una decostruzione storica della forma Stato è un
fatto di indubbio significato simbolico. Reinhard se ne rende conto e ce ne
avverte. Si tratta di decostruire lo Stato, di battere il percorso inverso
rispetto a quello consueto agli storici e ai professori di storia,
destinati un tempo a funzionare come educatori al senso dello Stato e
quindi tradizionalmente pronti a ricostruirne le magnifiche sorti e
progressive e a farsene servitori e propagandisti presso i giovani. Ci si
augura che il libro di Reinhard offra materia di meditazione a quegli
storici italiani che sembrano dilettarsi ancora della questione
deamicisiana di come si possa piantare l’idea di Patria nel cuore dei
giovani, convincendo con questo argomento una classe politica priva di ogni
altro «appeal». Quel terreno è oggi irrimediabilmente desueto. La
storiografia tedesca ce lo spiega con la sua voce migliore. È bene, dunque,
che l’Italia cessi di scimmiottare la Germania nel culto dello Stato e la
segua nel cercar di capire quali altre e diverse forme occupino il nostro
orizzonte. Per il passato, la decostruzione dello Stato è come lo
smontaggio caricaturale di Luigi XIV. Il Re Sole, alto un metro e 60 e
calvo fin da giovane, si costruì una immagine pubblica maestosa coi tacchi
e con la parrucca. Come scrisse William Thackeray, «barbieri e ciabattini
creano gli dèi che noi adoriamo». Il nostro tempo vi ha aggiunto solo un
piccolo dettaglio: la televisione.