la roulette delle pensioni



dal manifesto

    
    
 
    
 

18 Dicembre 2001 
  
 
   
La roulette delle pensioni 
Gli interessi dei grandi gruppi finanziari dietro la riforma. Soffocate le
pensioni pubbliche, tutto in mano ai Fondi. Eppure è sparita anche la
"gobba". Parla Roberto Pizzuti 
PAOLO ANDRUCCIOLI 




Il ministro del welfare, Roberto Maroni si è impegnato a portare la delega
pensioni al consiglio dei ministri di domani. La "riforma" previdenziale
berlusconiana scatena però più tensioni che consensi, sia tra i sindacati,
che tra gli industriali. Lo scontro è ancora aperto. Siamo andati a
chiedere il senso di tutta l'operazione a Roberto Pizzuti, professore di
politica economica all'Università di Roma, La Sapienza.


Professore, una delle motivazioni comuni per giustificare interventi sulle
pensioni è legata alla sostenibilità economica del sistema. Come stanno
veramente le cose?

Secondo un ragionamento ricorrente, il sistema non sarebbe sostenibile e
dunque vanno ridotte le prestazioni. D'altra parte - si dice - il sistema
pubblico ha oneri troppo elevati che ridurrebbero la competitività delle
imprese. Si vuole quindi ridurre il sistema per liberare risorse e
abbassare i costi pubblici, dando spazio ai fondi pensione a
capitalizzazione che in Italia non sono ancora sviluppati. Per superare
"l'anomalia" italiana si vorrebbe eliminare anche il Tfr. Per quanto
riguarda la sostenibilità, c'è da ricordare che non c'è nessuna emergenza.
Anzi. Per il rapporto tra prestazioni e contributi, il disavanzo del
sistema previdenziale nel 2000 è stato di poco meno di 30.000 miliardi. Ma
questo disavanzo è stato più che compensato dai 40.000 miliardi di imposte
che pagano i pensionati con i loro contributi. Il bilancio pubblico è
quindi migliorato di 10.000 miliardi. Nei conti e nelle statistiche
previdenziali italiane sono incluse però voci che in altri paesi vengono
scorporate (esempio: i prepensionamenti in Germania sono registrati come
politica industriale, in Italia sotto la voce pensioni). Il Tfr, per
esempio, è calcolato in Italia nella spesa previdenziale e ammonta a circa
due punti di Pil.

Se questa è la situazione attuale, bisogna però fare chiarezza sul futuro.
C'è sempre la mina della cosiddetta gobba...

Dopo le riforme realizzate negli anni novanta, le previsioni non sono
affatto allarmanti. Prima si parlava di un rapporto spesa/Pil del 23-25%,
ora siamo invece a poco più del 14%, anche con la famosa "gobba". Ma se è
vero quello che dice il rapporto Brambilla che ipotizza un tasso di
crescita del 2% per il prossimo mezzo secolo, allora anche la gobba
sparisce, ovvero la linea del rapporto crescita/spesa pensionistica è
piatta. Ma se il Pil crescerà più del 2%, allora ci sarebbe addirittura una
riduzione del rapporto spesa pensionistica/Pil, il contrario della gobba.
Il vero problema del nostro sistema pensionistico è la bassa copertura
soprattutto per le nuove forme contrattuali. La pensione futura dei
lavoratori di oggi coprirà il 30-35% dell'ultima retribuzione. In più c'è
da dire che le imprese stanno per fare ricorso a una nuova ondata di
prepensionamenti e questo, naturalmente, appesantirà ancora di più il
sistema previdenziale nel suo complesso per favorire le esigenze di
ristrutturazione delle imprese. Non c'è dunque alcuna anomalia italiana
rispetto al sistema previdenziale. Certo c'è il problema
dell'invecchiamento demografico, ma è una questione comune a tutti i paesi.
In altri paesi però la riduzione del tasso di natalità si affronta con
politiche mirate, come è successo in Svezia dove la tendenza si è già
ribaltata.

Ci sono però i problemi dei costi e della cosiddetta sostenibilità che
vengono utilizzati dalle imprese che chiedono una nuova riforma strutturale.

A questo riguardo ho fatto alcuni calcoli sui dati Eurostat e Ocse. Fatto
pari a cento il costo del lavoro per unità di prodotto, si scopre che
quello italiano è il più basso in Europa. Se le imprese dicono di essere
poco competitive per questo motivo, dicono una cosa non vera. Quanto al
cuneo fiscale, bisogna ricordare che il nostro è più basso di quello
francese e tedesco. Quindi non sono questi i problemi, ma vengono
sbandierati dalle imprese che preferiscono continuare a chiedere la
riduzione del costo del lavoro piuttosto che investire in innovazione per
competere. Dietro la richiesta di una nuova riforma ci sono dunque
interessi forti (che tra l'altro non sono omogenei fra loro). Sono comunque
tutte richieste parziali.

Che cosa si intende per richieste parziali e quali sono gli interessi forti
che stanno dietro la nuova riforma?

Prima di tutto ci sono gli interessi a sviluppare i fondi pensione. Su
questo punto c'è da dire però che una loro crescita troppo rapida
coinciderebbe con una sottrazione di risparmio nazionale alle nostre
imprese, soprattutto alle piccole e medie. In Borsa c'è molta domanda, ma
la nostra Borsa presenta scarsissima offerta di titoli nazionali per cui un
aumento della domanda generata dalla creazione dei fondi pensione
inevitabilmente implicherebbe un investimento all'estero. Ma il nostro
sistema è fatto di piccole e medie imprese che hanno già difficoltà a
trovare finanziamenti in Italia, figuriamoci all'estero. Dunque, l'impiego
del Tfr (magari con qualche misura nascosta di tipo forzoso) si tradurrebbe
in due problemi di costo e di reperibilità di finanziamenti per le piccole
imprese. Le grandi imprese, da parte loro, sono sì disponibili a cedere il
Tfr, ma chiedono in cambio di essere rimborsate dei maggiori oneri. Oltre
questo scambio, i grandi gruppi economici chiedono che in ogni caso si
riduca il costo del lavoro, vale a dire che si riducano le aliquote
contributive pensionistiche. Ma questo significa creare degli oneri che
saranno o a carico dei lavoratori in quanto a contribuzione, o/e nuovi
oneri a carico del bilancio pubblico sotto forma di fiscalizzazione
parziale dei contributi. Dietro la riforma si cela un disegno che punta a
una nuova redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori dipendenti i
quali perderebbero il Tfr, finanzierebbero la previdenza integrativa che
alla fine sostituirebbe la previdenza pubblica. I lavoratori dipendenti
avrebbero probabilmente lo stesso ammontare pensionistico nella somma tra
quel poco di pensioni pubblica che rimarrà e pensione privata, ma
perderebbero quasi del tutto il Tfr, che costituisce un elemento di
risparmio molto importante (oggi, tra l'altro, è anche una sorta di
assicurazione contro la disoccupazione). Ma è proprio questa la posta in
gioco. In più, affidare il reddito degli anziani a un mercato come quello
borsistico e finanziario è certamente molto rischioso. Ee i fondi sono
anche più costosi. Non c'è nessuna teoria economica per affermare che un
sistema così possa garantire maggiori rendimenti, almeno a parità di
rischio di un sistema a ripartizione. Bisogna dunque intendersi: o si vuole
sviluppare una previdenza intregativa per bilanciare la perdita del sistema
pubblico e allora si può dire che è un'operazione possibile, che però va
fatta con gradualità. Altra cosa invece è tendere a sostituire
sostanzialmente il sistema pensionistico pubbli
co con i fondi pensione. Allora si avrebbe un aumento dell'instabilità
complessiva del sistema economico e sociale, una redistribuzione del
reddito a discapito dei lavoratori e una riduzione della domanda di consumi
che in questa fase andrebbe invece supportata. La riforma si giustifica
dunque solo per gli interessi parziali dei grandi gruppi economici e
finanziari, che però non coincidono con gli interessi generali della
società, ma neppure con quelli delle piccole e medie imprese.