il modello mafioso nell'economia globalizzata



dalla rivista del manifestro dicembre 2001

Nell'economia globalizzata

IL MODELLO MAFIOSO 
Luigi Cavallaro   


1.Mi propongo in queste note di sostenere che la `società globalizzata',
nella quale secondo molti osservatori oggi viviamo, si avvia a essere
simile, in certi aspetti non secondari, alle società in cui spadroneggia la
mafia.
L'obiettivo è minimale: di fronte all'insistenza con cui viene teorizzata
l'epifania di un `nuovo ordine mondiale' – che gli apologeti chiamano
`civiltà superiore' e i detrattori (rectius, sedicenti tali) `impero' –
suggerire qualche irriverente analogia fra il `villaggio globale' e quel
villaggio siciliano descritto da Anton Blok in un fortunato libro del 1974
vorrebbe essere solo un modo di indicare quanto disordine c'è in giro e
quanto illusorio sia ritenere il contrario.
Naturalmente, una simile operazione richiede non solo una certa definizione
della mafia e una certa ricostruzione dei suoi rapporti con l'economia e la
società, ma anche una descrizione della forma oggi assunta dai processi di
produzione e circolazione della ricchezza sociale: tutti compiti largamente
superiori alle capacità di chi scrive. Mi limiterò, quindi, a esporre e ad
accostare taluni fatti stilizzati, soprattutto per sollecitare altrui
riflessioni e considerazioni al riguardo.
Ricordo che un `fatto stilizzato' serve a comunicare rapidamente alcune
cose che si ritengono vere (o comunque abbastanza prossime al vero),
evitando di perdersi in una pletora di dettagli. Sbaglierebbe, perciò, chi
cercasse nelle note che seguono `tutta' la verità; ambirei semplicemente ad
aver detto `nient'altro' che la verità.
2. Una decina d'anni fa, in un libro che suscitò molte discussioni e
polemiche, il sociologo Diego Gambetta sostenne che la mafia è un'industria
che, in concorso con altre istituzioni sociali (tra cui lo Stato), produce,
promuove e vende `protezione' in un determinato territorio, garantendo i
soggetti, le transazioni e i mercati protetti con l'uso della violenza.
`Industria' non deve far pensare a un'entità centralizzata: Gambetta usava
il termine in senso marshalliano, mettendo in luce che il bene `protezione'
è fornito da numerose `imprese' (le `famiglie' mafiose) tra loro in
concorrenza, anche se legate da un `cartello', e che quindi è fuori luogo
attendersi da esse il rispetto di criteri di universalità nella fornitura
delle prestazioni o di eguaglianza di trattamento; la mafia, proseguiva
Gambetta, non è uno «Stato minimo» à la Nozick, capace di assicurare il
controllo totale dell'uso della forza su un certo territorio e di
proteggere chiunque viva su quel territorio: essa vende protezione su basi
private, sicché prezzo, quantità e qualità del servizio possono
differenziarsi a seconda del rapporto che si instaura tra fornitore e
acquirente.
Tuttavia, osservava Gambetta, affinché un'economia di mercato funzioni al
meglio occorre che determinati servizi non siano `privatizzati'.
Legislazione, amministrazione e giurisdizione debbono essere organizzate su
basi universalistiche, il che significa che le elezioni politiche,
l'assegnazione delle pubbliche cariche e dei pubblici incarichi,
l'amministrazione della giustizia e la protezione dei diritti individuali
non debbono potersi vendere o comprare sul mercato. Di contro, se in un
determinato territorio la protezione è affare privato, anche questi beni
vengono `privatizzati'. Ne discendono relazioni sociali `personalistiche',
caratterizzate, come scrisse Leopoldo Franchetti nella sua celebre
inchiesta sulla Sicilia (1876), da un lato da fedeltà, amicizia e devozione
senza remore, dall'altro dalla formazione di clientele, che avranno al loro
centro uno o più individui potenti ai quali si rivolgerà ogni persona che
abbia bisogno di aiuto per far rispettare un suo diritto o per commettere
un abuso.
Sennonché, un sistema economico in cui non c'è universalità del precetto né
della sanzione e in cui la `fede privata', fondata sulle relazioni amicali
e parentali, domina sulla `fede pubblica', è caratterizzato, come ben sanno
gli economisti, dalla generale riluttanza alla cooperazione allargata e
impersonale e dall'intrinseca instabilità di ogni accordo, il che reca con
sé la stagnazione dell'industria e del commercio. «Le zone del Mezzogiorno
afflitte dalla mafia – concludeva perciò Gambetta – sono precipitate
pertanto in un tragico circolo vizioso dove gli unici mercati veramente
vivaci sono quelli in cui si commerciano i beni sbagliati.» 3. L'idea che
la mafia sia un'industria che fornisce un servizio identificabile con la
`protezione' non è del tutto originale: che di industria si trattasse lo
diceva lo stesso Franchetti (che però parlava di «industria della
violenza»), mentre, che la mafia si occupasse a suo modo di protezione era
stato sostenuto, tra gli altri, da Henner Hess e da Raimondo Catanzaro. Ma
per quanto non nuova, l'idea ha sollevato numerose critiche, alcune delle
quali volte a escludere che la protezione accordata dalla mafia sia
realmente un `valore d'uso', altre a negare che nella fornitura di
protezione si possa cogliere la quintessenza del fenomeno mafioso.
In effetti, che un'organizzazione criminale possa fornire un servizio
(anzi, un servizio `essenziale' come la protezione) è controintuitivo,
specie di fronte alla normale rappresentazione che si ha della mafia come
organizzazione dedita a commerci illeciti (contrabbando, traffico di
stupefacenti, usura, riciclaggio ecc.) o all'estorsione. Per capire come
ciò sia possibile è quindi opportuno, in prima battuta, ricorrere a un
modello analitico elaborato nel 1980 da Alan Block (e ripreso qui da noi da
Salvatore Lupo) per distinguere le due forme tipiche di criminalità
organizzata che operavano a New York fra gli anni trenta e cinquanta del
secolo scorso.
Supponiamo che un gruppo criminale debba far transitare una partita di
droga di ingente valore attraverso un aeroporto italiano. Se la droga fosse
una merce legale, il gruppo potrebbe porsi al riparo dal rischio di furti
stipulando un'assicurazione e fidando nella sorveglianza aeroportuale da
parte delle forze dell'ordine. Ma in Italia la droga non è una merce
legale, quindi è escluso che il gruppo criminale che ne è proprietario
possa accedere agli strumenti legali di protezione. Non gli restano che due
vie: o provvedere in prima persona alla protezione della merce, sopportando
i relativi costi, o – supponendo che quel luogo di transito sia
`controllato' da un altro gruppo criminale – entrare in contatto con
quest'ultimo, per farsi `garantire' che la merce giunga a destinazione.
In questo modello, come si vede, operano due distinti attori: il gruppo che
organizza il traffico illecito (in specie, di droga) e quello che controlla
il territorio (Block chiama il primo enterprise syndicate, il secondo power
syndicate). L'accordo tra i due concreta un vero e proprio atto di scambio,
in cui il primo gruppo paga un compenso monetario per ricevere dal secondo
un `servizio' genuino, che di norma consisterà nel poter fare affidamento
sulla rete di connivenze di cui esso gode (p. es. poliziotti compiacenti).
Ovviamente, nulla vieta che il primo gruppo eserciti le medesime funzioni
del secondo in un altro aeroporto, né che il secondo organizzi a sua volta
altre spedizioni di droga: di norma, le famiglie mafiose fanno l'una e
l'altra cosa. È indubbio, però, che da un punto di vista funzionale ci
troviamo di fronte a forniture di merci differenti: una merce illegale nel
primo caso, la protezione come merce nel secondo. Non si deve, perciò,
confondere la fornitura di protezione con la fornitura di merci illegali:
in primo luogo, perché imprenditori di beni illegali ce ne sono dappertutto
e allora si è costretti a cercare la specificità della mafia in
particolarità culturali, `etniche', `razziali' et hoc genus omne dei
siciliani; in secondo luogo, perché identificando la mafia con l'enterprise
syndicate si rischia di perdere di vista che la `risorsa' fondamentale, per
un'industria della protezione quale essa è, è la capacità di controllo del
territorio.
Quest'ultimo punto, d'altra parte, non deve indurre in un altro errore
analitico. È noto che una delle caratteristiche dello Stato moderno risiede
nella sua pretesa di detenere il monopolio della violenza (o meglio, della
protezione legale, la violenza ponendosi rispetto ad essa in rapporto di
mezzo a fine) sul territorio soggetto alla sua sovranità. Il fatto che
esistano gruppi, in specie mafiosi, che ambiscano a fornire protezione
nell'ambito di uno Stato sovrano non deve far pensare che essi siano dotati
di una speciale caratura `politica'. In realtà, questi gruppi fanno
politica come può far politica un'industria, cioè cercando senza troppi
scrupoli di cambiare a proprio favore le regole vigenti; è invece assente,
in essi, ogni considerazione circa l'attitudine dei propri interessi
economico-corporativi a `farsi Stato', diventando cioè – in armonia con
quanto impone una concezione moderna della politica – interessi universali,
in grado di promuovere uno sviluppo di cui possano beneficiare
concretamente anche i gruppi assoggettati al loro dominio/direzione
intellettuale e morale (nel che, osservava Gramsci, «è la fase più
schiettamente politica» dell'evoluzione dei rapporti di forza tra gruppi
sociali in competizione per l'egemonia). 
4. Non si deve pensare che la protezione mafiosa sia un sostitutivo
perfetto della protezione statale. Un motivo piuttosto semplice risiede nel
fatto che chi offre protezione ha tutto l'interesse a suscitare la domanda
della merce che vende, cioè – fuor di metafora – a creare condizioni di
insicurezza negli scambi, che possano rendere desiderabile l'esser
protetti: dalle `lettere di scrocco' a certi sinistri avvertimenti fino al
danneggiamento o alla distruzione di beni, al limite all'omicidio,
l'esperienza offre un vasto campionario di come i mafiosi riescano a
immettere sul mercato dosi limitate di `sfiducia' allo scopo di piazzare la
loro merce a caro prezzo. Ma nel contempo è riduttivo affermare che la
mafia protegge da pericoli che essa stessa crea, come sostengono coloro che
assimilano protezione ed estorsione. Basterà qui un altro esempio.
Tra i modi tradizionali attraverso i quali gli imprenditori danno luogo a
intese collusive a danno della concorrenza vi sono la spartizione dei
territori (io vendo qui, tu vendi là, ecc.) o la spartizione dei clienti
(io vendo a Tizio, tu a Caio, un altro a Sempronio ecc.). Supponiamo invece
che in un certo territorio vi sia un solo cliente (ad esempio, un ente
pubblico) che debba effettuare periodicamente acquisti di beni o servizi.
In tale evenienza, l'unico modo per raggiungere un accordo di cui possano
beneficiare tutte le imprese che operano in quel territorio è quello di
stabilire dei `turni': oggi vendo io, domani tu, dopodomani un altro, ecc. 
Naturalmente, se non c'è nessuno che si fa garante della tenuta
dell'accordo collusivo, difficilmente quest'ultimo verrà concluso, perché
per ciascuno dei partecipanti è troppo forte l'incentivo a tradire la
promessa (cioè a vendere in giorni diversi da quelli stabiliti) perché gli
altri si fidino. Gli esiti possono essere diversi se qualcuno si assume il
compito di proteggere le parti dall'eventualità della defezione altrui: se
questo `qualcuno' è sufficientemente credibile, è assai probabile che
l'accordo – che, si noti bene, è vantaggioso per tutti i partecipanti –
venga stipulato.
Secondo il racconto di Angelo Siino, in Sicilia la spartizione degli
appalti pubblici avveniva (avviene?) tramite un sistema del genere: era
stata organizzata una `coda' (il cosiddetto `tavolino'), in base alla quale
un'impresa presentava un'offerta idonea ad aggiudicarsi un certo appalto,
mentre le altre o non si presentavano oppure, sebbene formalmente
concorressero all'aggiudicazione, presentavano offerte sballate, in cambio
della garanzia di aggiudicarsi appalti successivi. La mafia, in cambio di
una percentuale sul valore dell'appalto, controllava che le imprese
rispettassero il turno (secondo indicazioni provenienti dall'ambiente dei
costruttori edili, vi erano `code' che arrivavano a contare centosessanta
imprese), comminando le relative `sanzioni' per coloro che non fossero
stati ai patti.
5. Alle `conseguenze economiche della mafia' si è già accennato in apertura
di queste note, ma conviene qui scendere un po' più in profondità. La
letteratura esistente in argomento – mi riferisco qui agli studi di Mario
Centorrino e Guido Signorino – muove da un dato a prima vista inspiegabile:
interrogati dall'associazione di categoria sugli ostacoli al fare impresa
nell'Italia meridionale, gli industriali collocano la presenza della mafia
al sesto (!) posto, dopo l'inefficienza delle amministrazioni locali, la
carenza di dotazioni infrastrutturali, il costo e la rigidità del lavoro,
l'onerosità dell'accesso al credito e il peso del fisco. 
Di fronte a un dato del genere, in effetti, diventa ragionevole supporre
che le imprese abbiano messo a punto opportune strategie al fine di
internalizzare i costi della protezione privata e massimizzare comunque i
profitti, imparando così a convivere con la mafia. Per comprendere quali
siano tali strategie, conviene ancora muovere dalla struttura del
`contratto di protezione'.
Va premesso, al riguardo, che non sempre la mafia richiede, quale pagamento
della protezione accordata, un corrispettivo in denaro: non è infrequente,
anzi, che invece che vile moneta vengano richiesti `servizi' particolari,
come l'assunzione di certe persone, un certo `riguardo' nella gestione del
personale (specie di quello assunto come corrispettivo del pagamento),
l'imposizione di certe imprese come fonti di approvvigionamento del
capitale circolante (materie prime, semilavorati, macchinari, ecc.) o come
subappaltatrici. In casi del genere, ovviamente, l'imprenditore subisce una
limitazione della sua facoltà di organizzare i fattori della produzione in
vista del conseguimento del massimo profitto, il che si traduce in un
innalzamento dei costi di gestione. La domanda, allora, è: perché, di
fronte a questo innalzamento dei costi, vi sono imprese che fuggono e altre
che restano?
Una prima risposta potrebbe far leva sul concetto di x-Efficiency,
elaborato negli anni Sessanta da H. Libenstein. Muovendo dal rilievo
empirico che, a parità di dotazione di capitale e forza lavoro, non tutte
le imprese raggiungono i medesimi standard di efficienza e argomentando che
la maggiore rigidità organizzativa imposta dalla necessità di acquistare la
protezione privata non produce, a parità di struttura degli inputs, i
medesimi effetti, si potrebbe ritenere che a fuggire siano le imprese meno
efficienti, per le quali l'aumento dei costi innalza insopportabilmente il
break-even point.
In realtà, non è detto che sia così. Uno degli aspetti di efficienza delle
imprese, in tempi di mondializzazione, sta nella capacità di percepire le
occasioni di profitto presenti in vari mercati, sfruttando all'uopo la
mobilità geografica. Ciò significa che, di fronte a qualsiasi mutamento
nella struttura dei costi, le più efficienti di loro valuteranno
attentamente l'opportunità di rilocalizzare l'investimento verso quei
mercati che risultano più convenienti. In questo modo, la presenza della
mafia provocherebbe uno di quei fenomeni che gli economisti designano come
adverse selection: il meccanismo spontaneo del mercato, infatti,
favorirebbe la permanenza in loco delle imprese meno efficienti. 
Ora, una popolazione imprenditoriale inefficiente in tanto può sopravvivere
in quanto riesca a dar luogo ad intese collusive volte a restringere il
mercato.
Ove, poi, si ponga mente al fatto che la disponibilità della protezione
mafiosa incentiva le imprese alla stipula di accordi collusivi, si
comprende sia la riluttanza degli imprenditori a `resistere' (tra il 1997 e
il 1998 le denunce per estorsione nel Mezzogiorno sono diminuite del 4,2% e
al settembre 1997 solo 10 miliardi dei 150 stanziati per le vittime
dell'estorsione risultavano erogati a seguito di denunce), sia il fatto non
infrequente che la connivenza tracimi in collegamento organico con una
famiglia mafiosa, mediante la stipula, per così dire, di un contratto di
protezione `a tempo indeterminato': onde non a torto si è parlato e si
parla di «borghesia mafiosa» (M. Mineo, U. Santino). 
Il risultato finale è quello che normalmente si ricollega all'utilizzo di
pratiche collusive: produzione meno efficiente, prezzi più alti e imprese
più piccole. Vedere per credere.
6. Ho taciuto fin qui di un problema sul quale da tempo si arrovella la
mafiologia, quello delle origini della mafia, ma nulla di più della sua
illustrazione può servire a cogliere il senso della proposta interpretativa
presentata in queste note.
La prima metà dell'Ottocento è unanimemente considerata dagli storici come
un periodo di grandi cambiamenti in terra di Sicilia, legati alla
soppressione del regime feudale (che data dalla costituzione approvata dal
Parlamento siciliano nel 1812) e all'affermarsi di un assetto della
proprietà terriera di tipo borghese. Il cambiamento non fu indolore: in
molti (troppi) casi, l'abolizione dell'ancien régime generò aspre contese –
vuoi sulle terre demaniali, vuoi sugli usi civici, vuoi sul regime della
proprietà fondiaria e sull'uso dei suoi prodotti, vuoi sul controllo della
forza lavoro contadina – che ebbero come effetto la moltiplicazione
dell'incertezza in ordine ai rapporti di proprietà.
Si trattava, in effetti, di un fenomeno comune a tutte le aree che hanno
sperimentato il passaggio dal regime feudale a quello
capitalistico-borghese, ma in Sicilia (o meglio, nella sua parte
occidentale) esso trovò una forma di risoluzione del tutto peculiare. A
causa dell'assenteismo dei grandi proprietari terrieri e della
contemporanea autonomizzazione della pletora di `bravi' che costituivano un
tempo le loro milizie private, la domanda di protezione da parte della
borghesia in statu nascenti incontrò qui un'offerta – vale a dire, una
grande quantità di individui spregiudicatamente avvezzi all'uso della
violenza e capaci, letteralmente, di vendere protezione al miglior
offerente – diversa da quella delle istituzioni statali. Furono in altri
termini i mafiosi (qui antesignani delle squadracce fasciste) a ricevere
l'incarico di controllare la forza lavoro contadina, sedandone
violentemente le rivendicazioni; furono loro ad occuparsi della protezione
della terra e del bestiame, assicurandone il controllo in modo da
`disciplinare' invasioni e abigeati, e sempre loro si assunsero il compito
di garantire che i prodotti della terra potessero essere trasportati e
venduti sui mercati cittadini, allestendo vere e proprie squadre di armati
che li scortavano a pagamento.
Fu così che, come scrisse Franchetti, la parola `mafia' trovò «pronta una
classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un
sostantivo che l'indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua
importanza speciale nella società siciliana davano diritto a un nome
diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi». Contrariamente
all'opinione di quanti li ritenevano (e li ritengono) escrescenze
pletoriche dell'arretratezza feudale, fu in un quadro di modernizzazione
spinta che i mafiosi si costituirono come «classe con industria ed
interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante» (ancora parole
di Franchetti). Con la conseguenza che lo Stato borghese post-unitario non
si trovò a dover affermare il proprio diritto e la propria giurisdizione in
un territorio in cui nulla di simile si era prima conosciuto, ma a dover
competere con una ben radicata soluzione sui generis dei problemi
ingenerati dalla modernizzazione della struttura economica e sociale.
Si è già accennato che la protezione mafiosa non è un sostitutivo perfetto
della protezione statale. Un'altra conseguenza della distanza fra le due si
può cogliere nel fatto che, in mancanza di un diritto uniforme e
uniformemente applicato, in Sicilia i diritti di proprietà non godettero
mai (e tuttora non godono completamente) delle caratteristiche che a loro
di norma si riconnettono in uno Stato moderno, vale a dire la tipizzazione
ad opera del legislatore e la possibilità di ricorso al giudice in caso di
controversie sulla loro spettanza, sicché l'unico modo per conservarne la
titolarità si rivelò quello di `scendere a patti' con quanti contestavano
(o potevano contestare) quest'ultima, cedendo loro parte del reddito che
era possibile trarne. Il che spiega come mai, nella composizione delle
controversie concernenti i diritti di proprietà, i mafiosi si siano
storicamente schierati indifferentemente dalla parte dei proprietari o dei
ladri (spesso, anzi, fungendo da mediatori tra le due parti): come osserva
Gambetta, in una società a protezione mafiosa, il diritto di non essere
rapinati o derubati prevale su quello di rapinare o rubare soltanto se, per
il protettore, il valore della vittima è superiore a quello del reo, il che
– a sua volta – non è che una funzione delle `preferenze' del mafioso, più
esattamente del suo `orizzonte temporale'. Se possiede un orizzonte di
lungo periodo (perché, ad esempio, può contare su di un `patto di non
aggressione' con lo Stato), il mafioso diventerà `invisibile' e si limiterà
a garantire ogni foggia di accordo collusivo, sia che concerna mercati
legali sia che riguardi quelli illegali. Se invece il suo orizzonte è
schiacciato sul breve periodo, prevarrà l'istinto predatorio. È allora,
propriamente, che la protezione si trasforma in estorsione.
7. Se si conviene che quella abbozzata nei paragrafi precedenti è una
descrizione stilizzata ma `vera' del fenomeno mafioso, posso provare a
sintetizzare così i motivi per cui ritengo che la società meridionale si
avvii a diventare una pregnante metafora del `villaggio globale'. Ciò che
va comunemente sotto il nome di `globalizzazione' è un processo che
coinvolge, attualmente, la `base materiale' della nostra esistenza, mentre
la `sovrastruttura' politica e giuridica resta ancorata a livelli
territorialmente circoscritti dalle dimensioni attuali degli Stati-nazione.
In altri termini, mentre la produzione, la circolazione e lo scambio di
merci, forza lavoro e capitali si vanno tendenzialmente mondializzando,
ordinamenti e istituzioni non fanno altrettanto. Il risultato rischia di
essere una `società globale' simile ai territori a dominazione mafiosa,
giacché – in assenza di un credibile potere `centrale' e di un ordinamento
giuridico uniforme e uniformemente applicato – sono attualmente gli
Stati-nazione a farsi carico di proteggere le `transazioni transnazionali',
temperando così l'incertezza relativa ai rapporti di proprietà che,
diversamente, potrebbe comportare la paralisi della produzione e della
circolazione della ricchezza. E poiché rispetto al mercato mondiale essi,
in quanto Stati, sono inevitabilmente particolari e non possono essere, a
un tempo, `particolari' quanto a ordinamento e `universali' quanto a
capacità di tutela, la loro protezione – così come quella mafiosa – non può
che essere una `protezione privata': nel duplice senso che viene accordata
o negata secondo criteri legati alle `preferenze' di fornitori che, per
dirla con Hegel, «hanno il loro proprio interesse come proprio fine», e
diventa `universale' soltanto mediante la generalizzazione di questo
`scambio' fra privati fornitori e privati acquirenti di essa.
La crescita delle ineguaglianze associate alla globalizzazione non è allora
altro che la conseguenza di un processo che, pur svolgendosi all'insegna
dell'efficienza, è in realtà intrinsecamente inefficiente: analogamente a
quanto accade nel Mezzogiorno, dove la `privatizzazione' della fornitura di
protezione ha dato luogo, per un verso, a una generale riluttanza alla
cooperazione `impersonale' e all'instabilità permanente degli accordi
comunque raggiunti e, per l'altro verso, alla predilezione di quella
particolare forma di concorrenza che consiste non già nel far meglio dei
propri concorrenti, ma nel farli fuori mediante intese collusive protette
dalla mafia, anche qui miglioramenti `individuali' (cioè di singole zone
del pianeta) sono possibili, ma la mobilità sociale complessiva si avvicina
a un gioco a somma zero.
8. Quello sommariamente schizzato è un processo ancora agli esordi: basti
pensare che, non appena si depurano le statistiche da frequenti errori
(come quello di misurare l'ampiezza degli scambi internazionali in termini
di valore delle esportazioni e importazioni sul Pil), ci si accorge che il
grado di integrazione raggiunto negli scambi commerciali è accostabile a
quello esistente già nel 1913. Ma la crescita delle ineguaglianze tra Nord
e Sud del mondo è un dato di attualità innegabile, il che induce a pensare
che quel quadro sia già racchiuso in potenza nel presente e che, per
disegnarlo compiutamente, sia sufficiente prolungare talune tendenze oggi
in atto. Mi limito a indicarne alcune.
Molti economisti concordano sul fatto che, con l'apertura delle frontiere
alla libera circolazione dei capitali, si è spezzata la catena
Stato-territorio-ricchezza. Può non piacere, ma Giulio Tremonti ha ragione:
mentre prima bastava agli Stati controllare il proprio territorio per
controllare la ricchezza che vi si produceva ed esercitare il monopolio
politico (fare e amministrare le leggi, battere moneta e riscuotere le
tasse), oggi non è più così: non è più, cioè, lo Stato che decide come
tassare la ricchezza prodotta sul suo territorio, ma la ricchezza a
scegliere dove essere tassata.
Questa novità, naturalmente, cambia i rapporti tra la borghesia
transnazionale (quella che opera via holding finanziarie) e i singoli
Stati-nazione. In primo luogo, perché trasforma il precedente rapporto
impositivo, fondato sulla potestà imperativa dello Stato, in un rapporto
contrattuale tra eguali, basato per giunta sulla relativa superiorità della
parte privata. In secondo luogo, perché apre alla borghesia la possibilità
di utilizzare a proprio vantaggio le difformità legislative esistenti fra
Stato e Stato, scegliendo un assetto organizzativo che canalizzi i flussi
finanziari verso i paesi – solitamente ricchi – che garantiscono maggiore
redditività (bassi prelievi fiscali, riservatezza bancaria, ecc.) e
concentri l'attività produttiva in quei paesi – solitamente poveri – dove
le legislazioni assicurano maggiore flessibilità della prestazione
lavorativa (bassi salari, restrizioni al diritto di sciopero e alla libertà
sindacale ecc.) e un uso più libero delle risorse (assenza di normative
antinquinamento, di tutela ambientale, ecc.). In terzo luogo, perché,
rendendo difficile agli Stati la possibilità di conquistare quella
(relativa) `signoria sul denaro', che ne aveva segnato, nella seconda metà
del `secolo breve', la possibilità di intervenire attivamente nel processo
economico, li induce a `specializzarsi' nella fornitura di protezione. I
confini nazionali, in quest'ottica, sono solo un limite: a misura che si
estendono le commodity chains, le «catene di merci» di cui Wallerstein ci
ha spiegato essere intessuta l'economia-mondo, le chances di imporsi sul
mercato mondiale della protezione vengono a dipendere strettamente dalla
capacità di uno Stato di estendere la propria area d'influenza ben al di là
del proprio territorio (nel senso che fornire protezione può richiedere
talvolta capacità di `aggressione').
Se adesso proviamo a spingere questi processi verso il loro `naturale'
punto d'approdo, ci vorrà poco, io credo, a riconoscere nella relazione in
fieri tra imprese transnazionali e Stati-nazione i caratteri salienti del
`contratto di protezione' tra enterprise syndicate e power syndicate:
nell'uno e nell'altro caso abbiamo non l'esercizio di un potere ma un atto
di scambio; nell'uno come nell'altro la protezione non è `imposta' ma
`domandata'; nell'uno e nell'altro, essa serve a garantire i diritti di
proprietà, di uso delle risorse e il controllo della forza lavoro e, per di
più, la sua disponibilità sollecita ogni sorta di accordi collusivi volti a
restringere la concorrenza: l'esempio più ovvio sono i brevetti, ma non è
un caso che la politica agricola dell'Unione europea ricordi da vicino le
pratiche delle società dei Mulini e della Posa, due cartelli operanti a
Palermo intorno al 1870 sotto l'egida della mafia e organizzati al fine di
rendere stabile il prezzo del grano e del trasporto in base a una rigida
turnazione, per cui ciascuno dei soci versava alla società una `tassa'
proporzionata al valore dei beni e servizi prodotti e accettava
periodicamente di ridurre la sua offerta in cambio di una `compensazione'
pagatagli dalla cassa comune.
Né si deve credere che l'estensione della propria influenza al di là dei
confini nazionali metta capo ad una nuova consapevolezza `politica' degli
Stati (di qui l'erroneità delle prospettazioni dei teorici dell'`impero'):
sul mercato mondiale essi operano non dissimilmente da un qualsiasi power
syndicate, nel senso che non ambiscono affatto a curare gli interessi
generali delle comunità che vengono a trovarsi sotto la loro protezione
(rectius, `protettorato'), ma a curare i propri interessi, più esattamente
quelli dei clienti che hanno scelto di proteggere (la strategia
mediorientale degli Stati Uniti d'America costituisce forse il miglior
riscontro empirico di quest'affermazione). E quanto al fatto che, talvolta,
la mafia protegge da se stessa, basterà ricordare le parole del sociologo
americano Charles Tilly: simulando, stimolando e persino inventandosi
pericoli di guerre esterne, i governi «spesso operano come il crimine
organizzato».
9. Ribadisco che si tratta di un processo in corso e che procede in modi e
ritmo differenti nelle varie regioni del mondo, e non di una descrizione
dello status quo. Aggiungo, però, che mai come ora esso è stato simile a
quello che visse la Sicilia nella prima metà dell'Ottocento, perché – per
dirla ancora con il vecchio Franchetti – quando la borghesia «non ha preso
in un paese una preponderanza di numero e l'influenza tale da assicurare ad
una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla potenza privata,
l'osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un
mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato».
Quest'affermazione non spiega soltanto la ricorrente difficoltà di tutti
gli analisti sociali nel distinguere, nell'ambito del mercato mondiale, tra
imprenditori operanti nel rispetto della legalità e imprenditori criminali
(evasori fiscali, terroristi, trafficanti di droga, di armi, di esseri
umani ecc.), essendosi ormai creata una gigantesca `area grigia' nella
quale non operano né regolamentazioni fiscali né normative antiriciclaggio
e di cui profittano enterprise syndicates dell'una e dell'altra specie; può
servire, soprattutto, a comprendere in che modo il disordine prossimo
venturo debba molte delle sue possibilità di affermarsi al `tentativo
rivoluzionario' che ha interessato l'ordinamento giuridico internazionale
sul volgere del millennio.
Di fronte all'allungamento delle commodity chains ben al di là dei confini
degli Stati nazione, ci si poteva attendere, in effetti, un'intensificarsi
di quel processo già affermatosi nel corso della seconda metà del XX secolo
e in base al quale gli Stati – acquisita consapevolezza del fatto che
esistono situazioni (dalle spedizioni postali al mantenimento della pace e
della sicurezza mondiale) in cui la loro azione uti singuli era
insufficiente o, peggio, dannosa – rinunciavano a porzioni di sovranità in
favore di organismi intergovernativi istituiti per trattato (dalle Nazioni
Unite alla cascata di organizzazioni che ne vennero: Fao, Unesco, Oms, Oil,
Fmi, Birs ecc.), i quali, sostituendosi (seppure parzialmente) ad essi
nella cura degli interessi comuni, riproducevano tendenzialmente, al
livello della comunità internazionale, quella dinamica `immanente' e
`civilizzatrice' che Norbert Elias ha spiegato essere all'origine della
formazione dello Stato moderno: immanente, perché seguiva traiettorie che
trascendevano la capacità di comprensione e d'intervento attivo dei singoli
governi che vi si trovavano coinvolti; civilizzatrice, perché incorporava
popolazioni frammentate e periferiche le une alle altre in un uniforme
sistema di comunicazione e di cooperazione.
È chiaro che sfonderebbe una porta aperta chi obiettasse che il sistema
riproduceva nel proprio seno gerarchie di potere esistenti di fatto nella
comunità internazionale (un esempio classico è il diritto di veto
riconosciuto ad alcuni Stati all'interno del Consiglio di sicurezza
dell'Onu): come ben sanno i giuristi, il fulcro della «costituzione in
senso materiale» di cui parlava Mortati è l'idea (in verità, molto
marxiana) che nella `società politica' valgano rapporti di sovra e
sotto-ordinazione che si stabiliscono fattualmente e che le conferiscono
già un `ordine'. Ma proprio per ciò, a mio avviso, si sbaglierebbe a
svalutare in toto quell'esperienza, perché – negandone il valore
progressivo rispetto allo status quo dei due secoli precedenti – si
ricadrebbe nell'utopia di quanti desiderano hic et nunc la `pace perpetua'
(e, perché no, la libertà e l'eguaglianza di tutte e tutti), dimenticando
che «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi»
e che, dunque, non si dà mai cooperazione se non conflittuale.
Comunque sia, questo processo – entrato in crisi, per motivi facilmente
comprensibili, all'indomani della dissoluzione dell'Urss, così come
testimoniato dai sempre più frequenti tentativi dei paesi economicamente
più forti di sganciarsi dai vincoli loro imposti dalla partecipazione agli
organismi sovranazionali di emanazione Onu (o, nella migliore delle
ipotesi, di trasformare questi ultimi in sedi di ratifica di decisioni
assunte unilateralmente altrove: ad es., nel cd G7, poi divenuto G8 o, come
si è detto polemicamente, G-1+7) – ha subito una decisa battuta d'arresto
in occasione del bombardamento Nato in Jugoslavia. La scelta di dieci paesi
(si sarebbe tentati di definirli `famiglie') di ricorrere all'uso della
forza in patente violazione degli Artt. 2, 24, 53 e 103 della Carta delle
Nazioni Unite – e in assenza di alcuna giustificazione fondata
sull'ordinamento internazionale vigente o di intenti dichiaratamente
`normativi' (nel senso che non sembra che gli Stati responsabili
dell'attacco abbiano inteso promuovere la formazione di una nuova norma,
secondo cui ogni Stato sarebbe legittimato a ricorrere all'uso della forza
allorché ritenga che un altro Stato stia perpetrando nel proprio territorio
violazioni alle norme del diritto umanitario) – sembra infatti un chiaro
tentativo di rivoluzionare il sistema di protezione e sicurezza collettiva
fondato sulla Carta delle Nazioni Unite e di introdurre, in sua vece, un
regime oligopolistico della protezione affidato a più Stati (o a gruppi di
Stati, come la Nato) in competizione tra loro, del tutto analogo a quello a
dominazione mafiosa affermatosi in Sicilia all'indomani della `rivoluzione
borghese'.
È probabile che è proprio su questo fronte – quello di una ricostruzione
della legalità, a livello del mondo globalizzato fondato sulla Carta delle
Nazioni Unite – che si gioca, specie in un momento drammatico come quello
che oggi viviamo, buona parte del futuro della comunità internazionale.




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