programmati a una valley di lacrime



dal manifesto di venerdi 22 novembre 2001

 Programmati a una Valley di lacrime 
Comando al silicio Tre libri sull'industria informatica statunitense, piena
di capitale di rischio, superlavoro, precarietà. In nome del sogno
americano BENEDETTO VECCHI 

Narra la leggenda che a Silicon Valley si aggirasse, nelle stanze di una
delle tante imprese high-tech che lì prosperano, un programmatore di
computer che lavorava nudo. L'alone di mistero attorno a questa figura si
nutriva di aneddoti a metà tra il pruriginoso e lo scandalizzato. Il
giovane programmatore era solito lavorare di notte e, racconta sempre la
leggenda, si toglieva jeans, t-shirt e mutande quando rimaneva solo in
ufficio. Tutto è filato liscio fino a quando è stato beccato da una donna
che, trovatoselo di fronte nature, sarebbe fuggita in preda al terrore.
Secondo un'altra versione il giovane sarebbe stato invece trovato una
mattina addormentato sotto la scrivania, rannicchiato in posizione fetale.
Il rumore di fondo di Silicon Valley alimentava anche la voce che i
sindacati avessero manifestato la loro riprovazione per il suo nude-look,
indicandolo come una delle tante espressioni di sexual harassment tipiche
del machismo dell'industria high-tech californiana.
La verità era un'altra, e la rivela lo stesso nudista a Po Bronson, giovane
scrittore e giornalista americano. Da buon programmatore che si rispetti,
il giovane non aveva orari di lavoro prestabiliti. Poteva lavorare
ventiquattro ore di seguito e dormirne altrettante, visto che non doveva
timbrare nessun cartellino, ma solo consegnare il prodotto del suo lavoro
alla scadenza concordata. "Sono - afferma il giovane al suo intervistatore
- semplicemente uno spirito libero della programmazione informatica".
La storia potrebbe finire qui, se non fosse lo spunto scelto da Po Bronson
per uno dei libri migliori sulla Silicon Valley degli anni Novanta. Il
nudista del turno di notte - Fazi editore, pp. 397, L. . 35.000 - raccoglie
le storie di chi lavora nel settore high-tech, del comune sogno di
diventare miliardari a trenta anni, delle loro delusioni, del superlavoro,
del ruolo propulsore del capitale di rischio nella crescita del settore
informatico, del patto sociale imposto alla forza-lavoro dal comando di
impresa - nessuna gerarchia apparente, contrattazione individuale del
salario, attraverso il meccanismo delle stock option, cioè l'accesso
privilegiato all'acquisto delle azioni, in maniera tale che il successo in
borsa dell'impresa si traduce in dollari sonanti per una settore
minoritario della forza-lavoro. Ma parla anche della diffusione della
figura del permatemp, cioè dei "precari per sempre" che svolgono la stessa
mansione dei lavoratori a tempo indeterminato, senza però stock option,
copertura sanitaria e con un salario che è un terzo dei loro compagni di
scrivania che hanno il colore del tesserino di riconoscimento blu invece
che giallo. Non mancano testimonianze di pratiche di resistenza che
sfruttano la precarietà per sottrarsi al comando di impresa.
Il libro di Bronson è un testo importante, perché mette a nudo il
meccanismo che fa funzionare, egregiamente dal punto di vista
capitalistico, Silicon Valley. Già in passato, è stato sottolineato da
altri studiosi, il circolo virtuoso tra le prestigiose università
californiane e la valle del silicio. Ma negli anni '90 c'è stata
un'ulteriore integrazione della formazione universitaria nella produzione
di merci capitalista. Le università continuano a sfornare laureati con
un'ottima preparazione, ma ora accade che stimati docenti svolgano la
funzione di intermediari tra venture capitalist e giovani e brillanti
laureati. A questo proposito, la vicenda della piccola impresa prodotta in
un laboratorio della Stanford University è emblematica della trasformazione
di parte della ricerca scientifica americana in "cacciatori di teste" della
produzione high-tech statunitense: un docente apprezza le idee di due
laureandi sullo sviluppo di un possibile software di grafica
tridimensionale, trova il capitale iniziale - un milione di dollari -,
consiglia ai due giovani di costituire una società per inserirla nel gruppo
delle start-up a cui l'università fornisce infrastrutture e servizi. Le
start-up sono proprio imprese che devono decollare, ma che per farlo hanno
bisogno di investitori che puntino su di loro. C'è, ovviamente, il
"capitale di ventura", ma spesso chi mette in comunicazione i laureati e il
capitale sono proprio le università. Si potrebbe affermare che è la
naturale evoluzione di un sistema formativo, come quello universitario
americano, da sempre in rapporto di interdipendenza con il mondo della
produzione. Ma sarebbe un giudizio vero solo a metà.

E' vero che Silicon Valley diventa il centro dell'industria informatica
perché l'università fornisce il sapere necessario. Ciononostante, le
materie e i programmi di insegnamento prima erano definite dal corpo
docente. Quello che accade negli anni '80 e '90 è la caduta di tale
autonomia, fino al punto che le università diventano un nodo della rete
produttiva di Silicon Valley.
In molti hanno sostenuto che Silicon Valley e l'industria hight-tech sono
eccezioni rispetto al resto della produzione capitalistica. Tutti sono
concordi nel sostenere il ruolo strategico del "capitale di rischio" nel
loro sviluppo; così come c'è unanime consenso nel riconoscere che la
precarietà del rapporto di lavoro è la regola, ma che è bilanciata dalla
possibilità di diventare ricchi e famosi, basta avere solo una buona idea
da tradurrre in business. A una lettura più attenta, nel volume di Po
Bronson è invece evidente che quelle caratteristiche da lui descritte sono
state gli elementi di ciò che, tra il propagandistico e l'ideologico, è
stata definita new economy.
In primo luogo, il capitale di rischio arrivava da fondi di investimento,
fondi pensione e dal surplus finanziario prodotto negli anni di boom della
borsa. Che i fondi di investimento, i fondi pensione e la borsa siano stati
una delle leve dello sviluppo economico degli Stati uniti per oltre
quindici anni non è certo una novità. Che il patto sociale tra forza-lavoro
e comando di impresa a base di stock option abbia funzionato come strumento
politico di governo del mercato del lavoro è una verità altrettanto
evidente. Per strumento politico, però, si intende un governo che ha
puntato a una crescente differenziazione del mercato del lavoro non solo su
linee etniche e sessuali di demarcazione, quanto su una stratificazione dei
bacini della forza-lavoro dove la regola generale è la precarietà e una
feroce disparità salariale.
Così, i professional, o i knowledge workers, rappresentano, più o meno, una
sorta di aristocrazia, i permantemp la base di massa della forza-lavoro,
mentre l'underclass può essere considerato a tutti gli effetti la carne da
macello del mercato del lavoro. Questa è, in maniera molto sintetica, la
descrizione dominante nella saggistica stunitense del mercato del lavoro.
Ma proprio il libro di Bronson testimonia che ogni tipologia è segmentata
al proprio interno e che si può essere un professional, o un permantemp, e
avere un trattamento salariale diverso da chi magari svolge la stessa
mansione. Il governo del mercato del lavoro sembra attuare una sofisticata
politica di controllo sociale la cui logica ha ben poco a vedere con il
foucaultiano sorvegliare e dividere. Semmai c'è l'individuazione di "gruppi
omogenei statisticamente" in base alla famiglia di provenienza, al consumo
culturale, alla differenza di accesso alla conoscenza e al sapere: quindi
all'università. E in quanto appartenenti a una "classe statistica" si entra
nel mercato del lavoro, stabilendo così un apriori della prestazione
lavorativa e delle condizioni salariali e di rapporto di lavoro. Una misura
medievale a cui si aggiunge un potente dispositivo di "produzione della
soggettività" in cui l'individuazione del gruppo sociale di provenienza
marchia per sempre la biografia individuale.

Un quadro fosco quello che quindi emerge dalla Silicon Valley, che non è
neanche temperato dall'happy end di alcune storie raccontate da Po Bronson.
E che trova conferma nel bellissimo libro Geek di un altro giornalista
americano, Jon Katz (Fazi editore, pp. 232, L. . 32.00). Se nel precedente,
la protagonista era Silicon Valley, in questo volume sono due ragazzi
dell'Idaho a tessere la trama della loro entrata nel mercato del lavoro.
Giovani geni dell'informatica in uno sperduto paese segnato dalla
asfissiante morale dei mormoni che decidono di fuggire e di trasferirsi a
Chicago. Si dichiarono geek, un termine usato per indicare appunto gli
"smanettoni" della tastiera, cioè degli asociali sempre sulla linea di
confine tra marginalità sociale e virtuosismo nella programmazione per
computer. La fuga dei due ragazzi si intreccia, nel libro, con l'ossessione
dei media verso i giovani ammalati di Internet e silicio. Giornali e tv
dipindono i geek come sradicati, potenziali assassini, giovani da
rinchiudere in qualche carcere. Poco importa che il giornalista autore del
libro abbia dato vita a una lista di discussione su di loro - presente sul
sito Slashdot.org - in cui emerge una umanità che sente sulla propria pelle
le stigmate del comando d'impresa e del controllo sociale. Il loro
riscatto, se così si può dire, non sta, affermano in molti di loro, nel
trovare un lavoro buono, ma nell'incontrare altri giovani simili a loro.
Solo tra geek, sostiene uno di loro, si può sopravvivere. Amara
consolazione per chi pensa di avere in dote la grande capacità di
manipolare le tecniche di programmazione ma deve mimetizzare la sua voglia
di rivolta.

Il libro di Katz è bello perché offre uno spaccato proprio di quel governo
del mercato del lavoro dove la segmentazione e la differenziazione segue
strade tanto antiche da ritornare attuali. Se sei un nero, il tuo destino è
più o meno segnato. Solo alcuni fortunati potranno salire in vetta. Se sei
donna, lo stesso. Se sei asiatico, vale la stessa regola. Ma anche se sei
di origine ispanica non puoi sfuggire a un prevedibilissimo futuro. Allo
stesso modo, però, se sei un geek non hai molte alternative. Puoi essere un
virtuoso del computer, ma la sottocultura di riferimento pregiudica la
possibilità di derogare da ciò che è stato stabilito. L'autore del volume
documenta tutto questo e sottolinea che negli Stati uniti il darvinismo
sociale sta mandando al macero un'intera generazione. Strano epilogo per
una società che incensa la mobilità e la frontiera come promessa di futura
felicità. C'è sempre quel nodo scorsoio che viene allentato o stretto a
seconda della contingenza: cioè i rapporti sociali di produzione. Katz lo
accenna, ma in qualche modo è prigioniero egli stesso di un'etica
protestante del lavoro. Sa che l'incantesimo dovrebbe essere rotto, ma è
scettico sulla possibilità di riuscita. Uno dei due giovani riesce ad
entrare nell'università, ma sa che questo non risolverà i problemi che ha
incontrato sulla strada tra l'Idaho e Chicago. Sarà per questo, ma il
(parziale) lieto fine - l'altro giovane non riesce ad entrare
nell'università e piomba nella depressione - lascia l'amaro in bocca. Katz
inscrive le vicende dei due protagonisti all'interno dell'ascesa della
nuova élite culturale dei geek, destinata a prendere, prima o poi, il
potere. Che sia una élite culturale c'è da dubitarne. E molto. Che sia una
sottocultura altera e, in alcuni casi, conflittuale con l'ordine dominante
è invece indubbio. Parole come potere sono, in questo universo giovanile e
sottoculturale, sulla bocca di chi condanna i geek ad essere un "gruppo
sociale a rischio" che vuol sfuggire ai rapporti di sfruttamento
all'interno della società. Società in cui i geek come Jesse e Eric, questi
i nomi dei due protagonisti, non vogliono integrarsi. La loro descrizione
di Chicago non lascia dubbi: preferibile sicuramente al polveroso paese da
cui provengono, ma pur sempre segnata da quel darvinismo sociale che li
condanna a una esistenza da paria della grande metropoli.

La visione del mondo di Jesse e Eric è da considerarsi l'antitodo
all'immagine patinata della società americana restituita da un terzo libro,
edito in Italia sempre da Fazi, che ha fatto discutere molto l'austero
mondo accademico statunitense. Si tratta di Cluetrain manifesto (pp. 319,
L. . 32.000). Scritto da quattro teste d'uovo dell'informatica made in Usa
- Rick Levine, cioè l'inventore del linguaggio di programmazione Java alla
Sun Microsystems, Cristopher Locke, maître à penser dell'organizzazione del
lavoro nel settore high-tech, Doc Searls, il creativo che ha pianificato le
campagne pubblicitarie di gran parte delle società della Silicon Valley,
David Weinberger, guru del world wide web - è un peana di quella che viene
chiamata nuova economia. La parola magica è interattività tra consumatori e
impresa: una volta che si stabilisce, usando l'idioma della sottocultura
informatica ampiamente usato dagli autori del libro, un buon feed-back, il
mistero del business è risolto. Ma per fare ciò, bisogna che "la gente si
scateni", come ha fatto nel Sessantotto, a Varsavia, a Piazza Tienammen e
contro il muro di Berlino. Una fraseologia fastidiosamente libertaria che
guarda, paradossi dell'argomentazione, all'impresa come al motore della
società. L'esaltazione di un capitalismo "libertario", ostile a ogni
organizzazione, insofferente per le gerarchie punta comunque a restituire
un'immagine della società dove il fine degli uomini e delle donne non è il
diritto alla felicità auspicato dalla Dichiarazione del 1776, quanto il
consumo. Una lettura semplicistica, sicuramente, ma che evidenzia come la
"produzione di soggettività" sia un affaire troppo importante per
considerarlo solo una sovrastruttura.

I tre libri in questione sono tre esempi di come gli Stati uniti e non solo
guardino alla new economy. E' cosa buona che siano stati tradotti - la
collana dedicata all'e-business e all'e-management della Fazi è, forse,
l'osservatorio più attento alla ideologia e ai sommovimenti della new
economy - perché tra le pagine sono elencate le poste in gioco al di là e
al di qua dell'Oceano. Negli ultimi due, tre anni il capitale di rischio è
cambiato. I fondi pensione e di investimento sono stati ridimensionati
dall'arrivo degli ingenti profitti accumulati in anni di sconfitta operaia
dalle "vecchie" élite industriali; il surplus della borsa si è connotato
come effetto delle continue politiche di downsizing della imprese
capitalistiche. L'unica regola immutata è il governo politico del mercato
del lavoro che fa sua la parola d'ordine della "tolleranza zero" per
rendere produttiva la soggettività della forza-lavoro.
Dopo l'attacco alle Twin Towers e l'inizio della guerra in Afghanistan c'è
chi ha affermato che sotto le torri gemelle è stato seppellito anche il
neoliberismo. Al suo posto, ora, c'è la guerra globale. Non solo contro il
fondamentalismo islamico. I nemici "interni" sono infatti anche le pratiche
di resistenza al comando di impresa, espresse da una moltitudine in
rivolta, che da Silicon Valley a Genova ha lacerato il velo del capitalismo
postfordista e fatto intravedere un altro mondo possibile.