clima e poverta'



da legambiente.it

 
 

Proteggere il clima, battere la povertà
Un mondo diverso è possibile
Firma anche tu la petizione di Legambiente
 
 

Chico Mendes era un "seringueiro"- un raccoglitore di caucciù - di Xapuri,
nell’Amazzonia brasiliana.

Spese la sua vita per salvare la foresta, contro i latifondisti che
bruciavano e tagliavano gli alberi, e per salvare con essa i
"seringueiros", che di foresta vivevano. Mendes fu un grande leader
sindacale ed ambientalista, grazie a lui l’opinione pubblica di tutto il
mondo e gli stessi ambientalisti si avvicinarono al dramma della
deforestazione in Amazzonia e capirono il nesso strettissimo che lega,
prima di tutto nel Sud del mondo ma non solo, la tutela dell’ambiente con
la difesa della dignità e del futuro dei popoli, l’azione per neutralizzare
il rischio climatico con la lotta contro il sottosviluppo. 

Il 22 dicembre 1988 Chico Mendes venne assassinato da sicari assoldati dai
grandi allevatori. Il suo nome è legato indissolubilmente all’impegno per
fermare i mutamenti climatici e per combattere la povertà.

Clima e povertà un mondo diverso è possibile è la campagna di Legambiente
per denunciare e contribuire a combattere il circolo vizioso tra mutamenti
climatici e sottosviluppo. 
La campagna si articola in iniziative d’informazione, giornate di
mobilitazione, azioni concrete di solidarietà. Queste le sue tappe:

Distribuzione di materiali informativi sull’intreccio tra clima e povertà; 
Una petizione popolare: per impegnare il governo, le regioni, gli enti
locali alla riduzione del 6,5% delle emissioni di anidride carbonica, per
ottenere la destinazione dello 0,7% del Pil a programmi di cooperazione
allo sviluppo; 
Una proposta per ridurre del 50% entro 20 anni la dipendenza del nostro
sistema energetico dal petrolio, attraverso azioni per promuovere l’uso
razionale dell’energia e diffondere l’uso delle fonti rinnovabili; 
Una raccolta fondi per finanziare progetti di solidarietà nel Sud del Mondo; 
Iniziative di informazione e sensibilizzazione nelle scuole. 

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Il materiale divulgativo della campagna "Clima e povertà" è disponibile
anche in formato Acrobat:

Opuscolo


Locandina
 



Il riscaldamento del pianeta è una prospettiva sempre più concreta, che
rischia di diventare inarrestabile se proseguiranno ai ritmi attuali le
emissioni in atmosfera di anidride carbonica e degli altri gas serra,
generate dalla combustione di petrolio e gas. Gli anni '90 sono stati il
decennio più caldo da quando esistono le statistiche meteorologiche, e gli
scienziati concordano che un ulteriore aumento anche di pochi decimi di
grado della temperatura terrestre porterebbe conseguenze catastrofiche:
intere regioni costiere verrebbero sommerse dal mare, gran parte dei
ghiacciai si scioglierebbe, l'avanzata dei 

Il compito di fermare i mutamenti climatici spetta prima di tutto ai Paesi
industrializzati, che con il 20% della popolazione mondiale sono
responsabili di oltre metà delle emissioni: bisogna incentivare il
risparmio energetico, promuovere le fonti rinnovabili, ridurre il trasporto
su strada, trasferire ai Paesi poveri le tecnologie necessarie per produrre
energia senza danneggiare il clima



Il petrolio è il nemico numero uno del clima ed è anche un potente fattore
d'inquinamento e di tensioni geopolitiche, solo una drastica riduzione
della dipendenza dal petrolio degli attuali sistemi energetici può avviare
il mondo verso un futuro di benessere per tutti e di pace tra gli uomini e
con la natura. Per realizzare questo obiettivo serve una svolta radicale
nelle politiche energetiche, che punti in particolare sullo sviluppo delle
fonti rinnovabili e in primo luogo dell'energia solare ed eolica: oggi
l'Italia...




Polli alla diossina, mucche pazze, bovini alimentati come carnivori, frutta
e verdura ai pesticidi, fragole con geni di pesce: degenerazioni che sono
il frutto di decenni di separazione crescente tra agricoltura e natura, e
che hanno reso i consumatori sempre più preoccupati ed insicuri. Oggi vi
sono alcuni segnali incoraggianti - basti pensare al boom dell'agricoltura
biologica in Italia -, ma la china generale resta pericolosa. Problema dei
problemi gli organismi geneticamente modificati: perché i rischi ambientali
e sanitari sono tuttora da decifrare, e soprattutto perché l'agricoltura
"biotech", interamente nelle mani di un piccolo gruppo di multinazionali, è
una minaccia per le produzioni tipiche e di qualità, principale valore
aggiunto dell'agricoltura italiana ed europea, e per i Paesi poveri, che
per il meccanismo dei brevetti già oggi versano migliaia di miliardi nelle
casse di industrie tutte concentrate nel Nord del mondo.






Secondo alcuni studi scientifici, entro mezzo secolo sarà estinto un quarto
di tutte le specie animali e vegetali oggi esistenti. La perdita di
biodiversità è il risultato di una serie di fenomeni provocati dall'uomo,
primo fra tutti la deforestazione che cancella a ritmi forsennati l'habitat
di gran parte delle specie viventi. Solo tra il 1980 e il 1995 sono andati
perduti 200 milioni di ettari di foresta tropicale, pari ad una superficie
più grande di quella del Messico. Luogo simbolo della deforestazione è
l'Amazzonia, dove ogni secondo viene distrutta una superficie pari ad un
campo di calcio: e proprio in Amazzonia la lotta dei "seringueiros", i
raccoglitori di caucciù, guidati da Chico Mendes contro i latifondisti
responsabili del taglio e dell'incendio della foresta, ha mostrato con
drammatica evidenza il nesso strettissimo tra tutela dell'ambiente e difesa
degli interessi dei più deboli. Nel 1988 Chico Mendes è stato assassinato
da sicari assoldati dai grandi proprietari terrieri, il suo nome ed il suo
esempio vivono nell'impegno di milioni di uomini e donne contro la
distruzione dell'ambiente e per il riscatto dei poveri del mondo.




In Africa, 400 milioni di persone si trovano a combattere ogni giorno della
loro vita contro il progredire inesorabile dei quasi 700 milioni di ettari
di deserti. I dati sulla desertificazione, alimentata provocata dallo
sfruttamento intensivo del suolo, dalla realizzazione di dighe e altre
grandi opere idriche, dai mutamenti climatici, sono impressionanti: in
media essa conquista ogni anno il 3,5% delle terre fertili, e la
percentuale sale di moltissimi nelle regioni tropicali.

Secondo la Fao, più di 800 milioni di persone soffrono letteralmente la
fame. Negli Stati Uniti, il 55% degli adulti è sovrappeso.

La penuria d'acqua è un problema ogni giorno più drammatico, che rende
sempre più incerto il futuro dell'agricoltura e dell'alimentazione nei
Paesi poveri: in India, per esempio, le falde freatiche si abbassano di
oltre 1 metro ogni anno.






L'ideologia liberista che attualmente governa i processi di globalizzazione
costringe centinaia di milioni di persone nei Paesi poveri a lavorare in
condizioni al di sotto di ogni limite accettabile di dignità, e produce
incertezza e crisi a catena. Il crollo pochi anni fa dei mercati asiatici,
che ha gettato nella miseria milioni di lavoratori, è il risultato di
questa logica, che privilegia gli interessi speculativi rispetto
all'obiettivo che si creino nel Sud del mondo economie solide.

Contro questo modello, il movimento antiliberista ha lanciato la proposta
della "Tobin Tax", imposta sulle transazioni internazionali a breve il cui
gettito verrebbe utilizzato per finanziare la cooperazione allo sviluppo:
una misura che scoraggerebbe i movimenti di capitali a fini puramente
speculativi e favorirebbe invece gli investimenti produttivi.




Nel mondo vi sono più di 22 milioni di rifugiati, persone costrette a
lasciare il loro Paese a causa di conflitti o persecuzioni: circa 15
milioni provengono dall'Asia e dall'Africa, 6 milioni dall'Europa, oltre un
milione dall'America settentrionale. A questi vanno aggiunti almeno 30
milioni di "rifugiati interni", persone sfollate dentro il loro Paese a
causa di guerre o calamità naturali, e 80 milioni di persone costrette a
lasciare le loro case per la costruzione di infrastrutture o lo
sfruttamento intensivo del terreno.





Le spese militari assorbono circa il 3% del prodotto lordo mondiale, e sono
destinate a crescere ancora. Il fenomeno riguarda tanto i Paesi poveri,
dove spesso i regimi dittatoriali spendono in armi gran parte degli aiuti
internazionali, quanto i Paesi ricchi. L'Italia, che è penultima tra i
Paesi Ocse nella spesa per la cooperazione allo sviluppo, mentre
nell'ultima finanziaria sono previsti aumenti significativi delle spese
militari.

Il debito dei Paesi poveri è di oltre 2400 miliardi di dollari, pari a
oltre il 150% delle loro esportazioni. Era di 1470 miliardi nel 1980 e di
600 miliardi nel 1970. Il problema del debito costituisce un grave ostacolo
per lo sviluppo dei Paesi più poveri, costretti a spendere per ripagarlo
molto di più che per l'istruzione o l'assistenza sanitaria. Un cartello
mondiale di centinaia di associazioni ha lanciato la richiesta che i Paesi
ricchi riducano entro il 2010 le spese militari del 20%, investendo le
somme risparmiate in programmi di cooperazione allo sviluppo, che
cancellino tutti i loro crediti verso i Paesi più poveri, che spingano
anche la Banca Mondiale e il Fondo monetario a cancellare il debito.




In questi anni il "pensiero unico" ha avvalorato l'idea che per competere
nel mondo globalizzato tutti i Paesi debbano uniformarsi ad uno stesso
modello, mutuato meccanicamente dall'Occidente. Questa prospettiva non è
soltanto insostenibile sul piano ambientale e culturalmente inaccettabile,
visto che condannerebbe all'estinzione saperi e tradizioni locali: è anche
economicamente perdente, poiché proprio le ragioni di una sempre più
serrata concorrenza tra mercati impongono ad ogni Paese, ad ogni economia
di valorizzare le proprie "vocazioni". Una prova? Dei dieci prodotti
recentemente indicati da una rivista americana come i più "globalizzati",
quasi tutti sono a forte identità; dal Chianti, alla pizza, alla stessa
Coca Cola che si può davvero considerare un "prodotto tipico" americano.





Un miliardo e trecento milioni di persone ha meno di un dollaro al giorno
per vivere. Se nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale
possedeva un reddito trenta volte superiore a quello del 20% più povero,
oggi la proporzione di 82 a 1, mentre tre quinti dei 4,4 miliardi di
abitanti dei Paesi poveri vivono in comunità prive di infrastrutture
igieniche di base, circa un terzo non dispone di acqua potabile e un terzo
dei bambini è sottonutrito e non raggiunge la quinta classe della scuola. A
fronte di ciò il 20% della popolazione mondiale, quella dei Paesi
industrializzati consuma l'83% delle risorse planetarie. Aumentare nel Nord
del mondo gli stanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo non è
beneficienza: è un inizio di risarcimento per una globalizzazione
ritagliata sugli interessi di pochi privilegiati.




Nei Paesi poveri vi sono 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni che
lavorano: il 61% vive in Asia, il 32% in Africa, il 7% in America Latina.
Tre quarti dei palloni da calcio venduti nel mondo sono fabbricati da
alcune centinaia di bambini pakistani: dieci ore di lavoro al giorno, 1500
lire di paga. In tutto il mondo ogni anno circa 1,2 milioni di donne e
ragazze con meno di 18 anni è oggetto di "traffico" a scopo di
prostituzione. In Brasile 2 milioni di bambini si prostituiscono, in
Thailandia 800mila. Negli anni '90 circa 300 mila bambini sono stati
soldati e sei milioni di bambini sono stati feriti in scontri armati. In
Cina 90 milioni di bambini non frequentano la scuola elementare. In Italia
più di 100mila bambini sotto i 14 anni lavorano invece di andare a scuola.

 
 
C’era un tempo in cui la difesa dell’ambiente era vista da molti come una
preoccupazione "da ricchi", come un lusso incompatibile con l’esigenza
dello sviluppo, soprattutto nel Sud del mondo, con l’esigenza.

Questa idea è stata smentita drammaticamente dai fatti, e oggi è evidente a
tutti che sono proprio i Paesi poveri a pagare i prezzi umani più alti per
il degrado ambientale, l’inquinamento, la dissipazione delle risorse
naturali. Basti dire che in Asia l’inquinamento fecale dei fiumi supera di
cinquanta volte quello dei Paesi industrializzati, o che nelle città del
Sud del mondo tra il 20% e il 50% dei rifiuti domestici non viene raccolto. 

Tra i problemi ambientali, l’aumento dell’effetto serra e il rischio
conseguente di mutamenti climatici sono quelli per i quali l’intreccio con
la povertà e il sottosviluppo è più forte. Dai Paesi poveri viene soltanto
una piccola quota delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas
serra, ma gli effetti di un incremento della temperatura sulla Terra —
avanzata dei deserti e delle zone aride, incremento dell’incidenza di
malattie endemiche come la malaria — colpiscono con particolare violenza
nel Sud del mondo, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita di
centinaia di milioni di persone che già oggi fanno i conti ogni giorno con
la fame, la miseria, le malattie. E d’altra parte, proprio il sottosviluppo
alimenta fenomeni, come la deforestazione, che aggravano il rischio climatico.

Per tutto questo, fermare l’aumento dell’effetto serra è un passo obbligato
se si vuole sconfiggere la povertà. Un passo che devono compiere prima di
tutto i Paesi ricchi, responsabili della stragrande maggioranza delle
emissioni dannose per il clima, un passo che impone di ridurre i consumi di
petrolio e di fonti energetiche fossili (la fonte di gran lunga principali
delle emissioni di gas serra) e di mettere a disposizione dei Paesi più
poveri le tecnologie necessarie per uno sviluppo davvero sostenibile.

Finora i Paesi ricchi si sono sottratti a questa responsabilità. Il
Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997 e che fissa obiettivi vincolanti di
riduzione delle emissioni di gas serra, non è ancora stato ratificato da
nessun Paese occidentale, e gli Stati Uniti, che da soli emettono un quarto
di tutti i gas serra, se ne sono apertamente chiamati fuori. 

Con la campagna su clima e povertà, Legambiente vuole denunciare
l’intreccio strettissimo tra rischio climatico e sottosviluppo, e
richiamare il mondo ricco nel quale viviamo alle sue responsabilità. Negli
ultimi mesi, da Seattle a Genova alla Perugia-Assisi, è cresciuto in tutto
l’Occidente e in particolare in Italia un grande movimento che si batte
contro questa globalizzazione "ritagliata" sull’interesse di pochi, che
eleva il mercato e la logica del profitto a categorie ideologiche e riduce
le relazioni umane ad una dimensione esclusivamente mercantile. Legambiente
è protagonista in questo nuovo, grande fenomeno di partecipazione e di
pensiero critico. Un mondo diverso è possibile, un mondo che sia
"nonsolomerci" e sia tanti più e tanti meno: più coesione sociale e meno
liberismo, più diritti umani e democrazia meno schiavitù, più cancellazione
del debito e meno spese militari, più identità culturale e meno
omologazione, più cooperazione allo sviluppo e meno povertà, più istruzione
e meno lavoro minorile, più risparmio energetico e meno effetto serra, più
fonti rinnovabili e meno petrolio, più trasporto pubblico e meno anidride
carbonica, più biologico e meno pesticidi, più sicurezza alimentare e meno
Ogm, più biodiversità e meno deforestazione. 

La campagna su clima e povertà è un mattone per costruire questo mondo
diverso e possibile.

 



Alcuni gas presenti nell’aria, detti "gas serra", hanno la capacità di
assorbire il calore di quella quota di radiazioni solari che una volta
"rimbalzata" sulla superficie terrestre sfuggirebbe poi verso lo spazio:
più cresce la loro concentrazione, e più aumenta la quantità di calore
intrappolata nell’atmosfera e dunque, tendenzialmente, la temperatura sul
nostro pianeta. 

Sono "gas serra’ l’anidride carbonica (C02), i clorofluorocarburi (CFC), il
metano (CH4), l’ossido di azoto (N20), l’ozono troposferico (03). La
concentrazione dei ‘gas serra" nell’atmosfera cresce sia per l’aumento
delle emissioni dovute ad attività umane sia, nel caso dell’anidride
carbonica, per la sistematica distruzione di milioni di ettari di foresta:
gli alberi, infatti, agiscono da veri e propri "accumulatori" di carbonio,
e per ogni ettaro di foresta bruciato cresce quindi di un po’ la quantità
di anidride carbonica liberata nell’aria, e con essa l’effetto serra.

A partire dalla rivoluzione industriale, la concentrazione dei "gas serra"
nell’atmosfera è progressivamente aumentata: era di 280 parti per milione
alla metà dell’Ottocento, oggi è di 370 parti per milione. Parallelamente,
si è verificato anche un graduale aumento della temperatura media, che
negli ultimi anni ha subìto un’accelerazione: gli anni ’90 sono stati il
decennio più caldo a memoria d’uomo, e al ’98 è toccato il record di anno
più caldo mai registrato.

Gran parte della responsabilità per il progressivo riscaldamento del nostro
pianeta va addebitata al modello energetico dominante e al Nord del mondo:
l’80% delle emissioni di anidride carbonica, il principale "gas serra",
proviene dalla combustione del carbone, del petrolio e del metano, dunque
dall’attività delle centrali termoelettriche, dai fumi delle industrie,
dagli scarichi delle automobili, mentre oltre metà delle emissioni totali è
concentrata nei Paesi industrializzati dove vive appena il 20% della
popolazione mondiale. 

Se le emissioni dei "gas di serra" in atmosfera proseguiranno ai ritmi
attuali, dovremo attenderci nei prossimi decenni un riscaldamento globale
del pianeta compreso tra 1 e 3,5 gradi centigradi. Le conseguenze di questo
aumento della temperatura sarebbero catastrofiche. Esso provocherebbe il
parziale scioglimento dei ghiacci e un’espansione termica degli oceani, con
un innalzamento prevedibile del livello dei mari di 15-95 centimetri,
l’avanzata dei deserti e delle zone aride fino a molte regioni oggi
temperate, un’intensificazione e una maggiore estensione di eventi
meteorologici estremi come alluvioni, inondazioni, cicloni tropicali, un
incremento dell’incidenza di molte malattie caratteristiche dei climi
tropicali, l’accelerazione dei ritmi di estinzione delle specie vegetali ed
animali. 

Secondo molti scienziati, i mutamenti climatici sono già una drammatica
realtà. Una realtà che colpisce a tutte le latitudini e senza badare alle
frontiere o alla dimensione dei Pil, ma che indiscutibilmente determina le
conseguenze più pesanti nei Paesi poveri. In Africa, per esempio, 400
milioni di persone si trovano a combattere ogni giorno della loro vita
contro il progredire inesorabile dei quasi 700 milioni di ettari di
deserti. I dati sulla desertificazione, il cui intreccio con i mutamenti
climatici trova sempre più conferme, sono impressionanti: in media essa
conquista ogni anno il 3,5% delle terre fertili, e la percentuale sale di
moltissimi nelle regioni tropicali.

La desertificazione è uno dei fattori principali della povertà e del
sottosviluppo e in particolare la causa prima di un fenomeno che spesso
assume connotati biblici: quello dei profughi ambientali, intere comunità
costrette a lasciare la loro terra divenuta sterile e a sopravvivere in
campi di fortuna nelle peggiori condizioni sociali, igieniche e sanitarie
immaginabili. Nel 2000, per la prima volta nella storia, il numero dei
profughi ambientali ha superato quello delle vittime delle tante guerre che
insanguinano il mondo. 

  



Kenya: l’erosione del Bacino del fiume Nyando
Tanti piccoli canyon dalle forme bizzarre che segnano il paesaggio in
maniera decisa. "Antichi e affascinanti documenti sulla storia geologica
della Terra", pensa il visitatore che giunge per la prima volta nel bacino
del fiume Nyando, a pochi chilometri da Kisumu e dal lago Vittoria. Niente
affatto. Questi canyon sono figli della grande alluvione provocata dal Nino
nel 1961 e dell’erosione del suolo. Il grande problema è che questi canyon
guadagnano metri su metri ogni anno, isolando i villaggi e scaricando
tonnellate di detriti nel Lago Vittoria. Un disastro idro-geologico che
prosegue ineluttabile il suo corso, con conseguenze gravissime sul piano
sociale e ambientale. 

Tanzania: le ultime nevi del Kilimanjaro
Con i suoi 5800 metri è la montagna più alta dell’Africa e la sua immagine
è celebre in tutto il mondo. Nella lingua dei "chagga", la tribù che abita
la montagna dal lato della Tanzania, Kilema Kyaro significa "ciò che rende
impossibile il viaggio". Per i Masai, invece, è la "montagna bianca". La
sua leggenda nasce in Europa nel 1849, quando John Rebmann, il primo
occidentale a descriverne la cima innevata, viene deriso dalla Royal
Geographical Society. A quel tempo, nessuno immaginava che potesse esserci
la neve all’equatore, e il malcapitato fu preso per pazzo. Oggi quella neve
è in pericolo, minacciata dal riscaldamento del pianeta: secondo
l’Università dell’Ohio, dal 1912 a oggi la montagna bianca ha perso oltre
l’80% dei suoi ghiacciai e la neve potrebbe scomparire definitivamente
dalla cima in soli 15 anni. Una catastrofe, che minaccia che minaccia la
vita di intere popolazioni, i Masai e i Chagga.



Kenya: l’oasi di Marsabit 
Il Kenya dipende in modo primario dall'agricoltura, ma solo il 20% del
territorio gode di precipitazioni adeguate e di terreni adatti alle
coltivazioni. Secondo l’ultimo Rapporto sullo stato di attuazione della
Convenzione per la lotta alla desertificazione, "più dell'80% del Paese è
esposto a fenomeni di desertificazione. Queste stesse terre assicurano oggi
la sopravvivenza al 26-30% della popolazione, al 50% del bestiame, e a una
vasta gamma di animali e piante selvatiche che costituiscono il cuore
dell'industria turistica del Kenya". Negli anni ’90 il Kenya ha conosciuto
quattro gravi carestie, e le alluvioni portate dal Nino nel ‘97 e nel ‘98. 



Kenya: l’assalto al Monte Kenya
E’ la seconda vetta dell’Africa, richiama ogni anno migliaia di turisti,
costituisce la principale riserva d’acqua e di vegetazione del Kenya, e
riassume in sé tutte le contraddizioni e i pericoli che minacciano i grandi
ecosistemi montani nei Paesi in via di sviluppo: la frenetica attività di
deforestazione (legale e illegale) e l’estrazione del carbone, i pascoli
illegali e il bracconaggio spietato nei confronti di specie rare e
protettissime come leoni, leopardi e elefanti. Questo vero e proprio
assalto al Monte Kenia non rischia solo di mettere in ginocchio l’omonimo
parco nazionale, ma ha effetti drammatici anche sui fiumi che nascono dalle
riserve d’acqua della montagna: il fiume Tana, ad esempio, il principale
corso d’acqua del Kenya, che negli ultimi 15 anni ha ridotto drasticamente
la sua portata. 

Brasile: la foresta che non c'è più

La Mata Atlantica è uno degli ecosistemi più ricchi del pianeta in termini
di biodiversità, da cui dipende la qualità della vita di milioni di
brasiliani. In origine l'area di questo bioma si estendeva per 1.306.421
kmq, circa il 15% del territorio brasiliano è più di quattro volte la
superficie dell'Italia. Dopo cinque secoli di deforestazione di questa
giungla non rimane più che il 7% della copertura originaria. Negli ultimi
40 anni l'elevato il ritmo della deforestazione e lo sfruttamento
incontrollato del terreno, ha drammaticamente impoverito e reso aride molte
zone. Legambiente è attiva in questa zona con un progetto di cooperazione
per la ricerca, il recupero e l'educazione ambientale.

 



Ogni tre secondi se ne va un campo di calcio 


Nelle foreste tropicali vive metà di tutte le specie animali esistenti
sulla terra. Questo vero scrigno della biodiversità è anche il "polmone
verde" del nostro pianeta, che gioca un ruolo decisivo negli equilibri
climatici globali. Da alcuni decenni, le foreste tropicali sono oggetto di
uno dei più colossali e pericolosi fenomeni di distruzione dell’ambiente
che si ricordi, che rischia di aggravare ulteriormente le conseguenze sul
clima delle concentrazioni ormai altissime di anidride carbonica in atmosfera.



Su un totale di 2 miliardi di ettari di foreste tropicali, ogni anno ne
vanno perduti tra 11 e 15 milioni di ettari, una superficie pari più o meno
a quella di un medio Paese europeo. Come dire che ogni tre secondi scompare
l’equivalente di un campo di calcio! 
Nel 1982, in quello che è stato definito il più grave disastro ecologico
del secolo scorso, circa 3,24 milioni di ettari di foresta vennero
cancellati da un incendio scoppiato a Kalimantan, in Indonesia. Il rischio
di simili catastrofi è accentuato dal fatto che la deforestazione riduce la
piovosità. 
La deforestazione accelera il ritmo di erosione del suolo. In Guatemala si
perdono ogni anno circa 1200 tonnellate di suolo vegetale per ogni
chilometro quadrato di terreno. Questo rende sempre meno produttiva
l’agricoltura, mentre in Paesi come l’India o il Bangladesh la
sedimentazione della sabbia e del fango trasportati dai fiumi minaccia le
dighe e rischia di provocare grandi inondazioni nelle zone basse. 
Ben oltre il 10% della foresta amazzonica è già stato distrutto dagli
incendi dolosi e dai disboscamenti per far posto a grandi allevamenti o a
centrali elettriche. Contro questo disastro provocato dall’uomo si battono
le popolazioni indigene, che da 50.000 convivono con la foresta
rispettandone l’integrità: simbolo della loro lotta è la figura di Chico
Mendes, leader del sindacato dei raccoglitori di caucciù, assassinato nel
1988. 
A causa della deforestazione, metà degli oltre cinque milioni di specie
animali attualmente conosciute rischia di scomparire entro i prossimi 50
anni. 
La foresta della Costa d’Avorio è passata in un secolo da 16 milioni di
ettari e a meno di tre milioni di ettari. Nel frattempo si è rotto l’antico
equilibrio della caccia di sussistenza: 25 milioni di persone nel solo
bacino del Congo basano infatti la loro alimentazione e la loro economia
domestica sulla selvaggina, e oggi rischiano di portare all’estinzione
molte specie animali. 
 



I numeri della povertà

Il sottosviluppo nel quale vivono miliardi di persone è una realtà tragica
e sempre più consolidata : se nel 1960 il 20% più ricco della popolazione
mondiale possedeva un reddito trenta volte superiore a quello del 20% più
povero, oggi la proporzione è di 82 a 1, mentre tre quinti dei 4,4 miliardi
di abitanti dei Paesi poveri vive in comunità prive di infrastrutture
igieniche di base, circa un terzo non dispone di acqua potabile e un terzo
dei bambini è sottonutrito e non raggiunge la quinta classe della scuola. 
In molti Paesi dell’Africa australe (Botswana, Zimbabwe, Zambia, Uganda.
Malawi, Rwanda, Burundi) ma anche in diversi Paesi dell’est europeo
(Russia, Lituania, Lettonia, Estonia, Ucraina, Bulgaria), la speranza di
vita dal 1970-75 al 1995-2000 è diminuita. In Zimbabwe è passata da 51,5 a
44,1 anni, in Zambia da 47,3 a 40,1 anni, in Botswana da 53,2 a 47,4 anni,
in Russia da 68,2 a 66,6 anni. 
In Botswana e Zimbabwe più di un quarto della popolazione tra 15 e 49 anni
è sieropositiva o malata di Aids. In Sud Africa, Swaziland, Namibia, Kenya,
Zambia, Costa d’Avorio, Malawi, Rwanda, Repubblica Centrafricana e
Mozambico, la percentuale è tra il 10’% e il 20%. 
In Italia la disponibilità pro-capite di acqua potabile supera i 1000 metri
cubi; in Angola, Ciad, Nigeria, Mozambico, Etiopia, Uganda, Tanzania è
inferiore ai 50 metri cubi. 
In Cina 90 milioni di bambini non frequentano la scuola elementare. 
50 Paesi hanno fatto registrare tra il 1990 e il 1999 una variazione media
negativa del reddito pro-capite. 
I tre uomini più ricchi del mondo — Bill Gates, il proprietario della
catena di supermercati Wal-Mart e il sultano del Brunei — hanno un
patrimonio pari alla somma dei Pil dei 43 Paesi più poveri. 
Nei Paesi poveri vi sono 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni che
lavorano: il 61% vive in Asia, il 32% in Africa, il 7% in America Latina. 
Tre quarti dei palloni da calcio venduti nel mondo sono fabbricati da
alcune migliaia di bambini pakistani: dieci ore al giorno di lavoro, 1.500
lire di paga. 
In Brasile 2 milioni di bambini si prostituiscono, in Thailandia 800.000. 
Il debito dei Paesi poveri è di oltre 2.400 miliardi di dollari, pari a
oltre il 150% delle loro esportazioni. Il debito era di 1.470 miliardi nel
1980 e di 600 miliardi nel ’70. 
 



La possibilità per i Paesi del Sud del mondo di uscire dalla povertà è in
buona parte affidata alle scelte di politica energetica del mondo
industrializzato. I Paesi ricchi devono ridurre la loro dipendenza dal
petrolio e sviluppare le tecnologie per produrre elettricità e calore con
l’energia solare, eolica, con le biomasse: solo così si potrà scongiurare
la catastrofe climatica e offrire ai Paesi poveri un adeguato e sostenibile
accesso all’energia. 

Senza energia non può esservi sviluppo, e solo le fonti rinnovabili possono
soddisfare il bisogno di energia dei Paesi poveri senza mettere in pericolo
la vita stessa dell’umanità. 

La nostra proposta è che l’Italia, uno dei Paesi che contribuiscono di più
alle emissioni di gas serra, riduca la sua dipendenza dal petrolio del 10%
entro il 2006, del 25% entro il 2010, del 50% entro il 2020. 

Per centrare questo obiettivo, che oltretutto avrebbe l’effetto di ridurre
drasticamente anche l’inquinamento atmosferico, occorre modificare
radicalmente il nostro modello energetico. Non più grandi centrali, ma
tetti delle case con i pannelli solari, crinali montani con le turbine
eoliche, tecnologie per la microgenerazione. 

Ecco alcuni dei principali interventi da realizzare in questa prospettiva:

Diffusione della cogenerazione (impianti che producono elettricità e
calore, abbattendo gli sprechi) e della trigenerazione (impianti che
producono elettricità, calore, refrigerazione), puntando su centrali di
piccole e medie dimensioni distribuite capillarmente sul territorio. 
Diffusione di impianti alimentati ad energie rinnovabili (turbine eoliche,
tetti fotovoltaici, scaldabagno solari, centrali termoelettriche solari,
centrali alimentate a biomasse). 
Incentivi alla rottamazione di elettrodomestici e lampade a bassa efficienza. 
Incentivi alla ristrutturazione degli edifici orientata a migliorare il
rendimento energetico. 
Potenziamento del trasporto su ferrovia e via mare dei passeggeri e delle
merci. 
Potenziamento dei trasporti pubblici nelle aree urbane. 


 



Un Mondo diverso è possibile




 

Al Presidente del Consiglio
Al Presidente della Regione
Al Presidente della Provincia
Al Sindaco
Alle autorità in indirizzo:


i sottoscritti cittadini chiedono a ciascuno di voi, ognuno per le sue
competenze a livello nazionale e locale, di prendere misure di governo
concrete che permettano al nostro Paese di rispettare i seguenti impegni
sottoscritti a livello internazionale:

 ridurre del 6.5% le emissioni di gas di serra con politiche di risparmio
energetico, incentivazione dell'utilizzo delle fonti rinnovabili, modifica
radicale della politica dei trasporti sia urbani che extraurbani. 
 destinare lo 0.7% del Pil alle attività di cooperazione allo sviluppo;
rispettare la legge 68/93 che prevede, per i comuni, l'obbligo di destinare
lo 0.8% delle prime 3 voci del bilancio comunale ad attività di
cooperazione decentrata. 
 fare in modo che si rispetti l'obiettivo proclamato dall'Unione Europea e
dai 185 Paesi partecipanti al Vertice Mondiale sull'Alimentazione, svoltosi
a Roma nel 1996, di dimezzare, entro il 2015, il numero delle persone che
soffrono la fame nel mondo. 

 

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Cap/Città/Prov.         
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indirizzo di posta elettronica:   
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