nazioni unite:l'ambientalismo e' in crisi



da boiler it di sabato 9 giugno 2001
 
Ma io dico che l’ambientalismo è in crisi…

di Pietro Greco

 A NOVE ANNI da Rio de Janeiro, la politica delle Nazioni Unite per
l’ambiente e lo sviluppo è in una posizione complessiva di stallo. Che qui
e là diventa un vero e proprio arretramento. L’Agenda 21 e la Convenzione
sulla Biodiversità stentano a essere implementate. La Convenzione sul
Cambiamento del Clima, persino in quella sua pallida fase operativa che è
il Protocollo di Kyoto, è virtualmente bloccata. Gli aiuti allo sviluppo,
elemento necessario per lo sviluppo sostenibile, invece di raddoppiare sono
diminuiti. Questo stallo che appare clamoroso a chi ha vissuto lo “spirito
di Rio” non sta producendo, tutto sommato, quella forte mobilitazione delle
coscienze che meriterebbe e che sarebbe avvenuta solo dieci anni fa.

L’indifferenza verso i vincoli ecologici

Alla guida degli Stati Uniti da circa sei mesi è un presidente, George W.
Bush, che fa dell’indifferenza schietta, dichiarata, quasi ostentata alla
sostenibilità ambientale il suo tratto politico caratteristico. È una
situazione del tutto originale. Nessun leader di un grande paese ha osato
tanto, negli ultimi lustri. La situazione è tanto più grave non solo perché
gli Stati Uniti sono il paese che più inquina al mondo, ma anche e
soprattutto perché sono la più grande potenza militare, economica e
politica del pianeta. Ciò gli conferisce naturalmente un ruolo guida. Il
rischio quindi è che la politica di Bush diventi un alibi e un modello per
molti nel mondo.
In molti paesi importanti dell’Occidente i partiti dei Verdi sembrano aver
esaurito la loro spinta propulsiva e sono in una crisi politica evidente.
Negli Usa il movimento si è presentato diviso alle recenti elezioni
presidenziali. E diviso ha perso. Il verde Al Gore non è rientrato da
presidente alla Casa Bianca, dopo averla frequentata per otto anni da
vicepresidente, anche perché il movimento politico del verde Ralph Nader
(già leader del movimento consumatori) gli ha sottratto i voti decisivi. In
Germania il partito dei Verdi soffre forse oltre il lecito la sua
partecipazione al governo ed esprime questa sua sofferenza con una
divisione che minaccia di diventare spaccatura. In Italia, dopo cinque anni
di partecipazione al governo, i Verdi hanno subito, domenica 13 maggio, una
sconfitta elettorale che somiglia molto a una disfatta. Tanto che i due
leader del partito, Grazia Francescato e Alfonso Pecoraro Scanio, ne hanno
chiesto addirittura lo scioglimento, in vista di una rifondazione.
Lo stallo delle politiche globali di sviluppo sostenibile; l’affermazione
inedita di leader politici che ostentano la loro indifferenza ai vincoli
ambientali e teorizzano la priorità assoluta del mercato (George W. Bush,
ma anche per certi versi Silvio Berlusconi); la divisione e la crisi dei
Verdi in molti grandi paesi. Questi sintomi in apparenza così diversi, che
si manifestano qui e là nel corpo della politica ambientale, non possono
essere frutto del caso. Forse sono i segni evidenti di un malessere
profondo. Forse a essere in crisi non è la politica contingente, ma la
stessa cultura ambientalista. Questa diagnosi potrebbe essere esagerata, ma
l’importanza della posta in gioco impone almeno una verifica. Impone,
almeno, di cercare di capire perché la cultura ambientalista, dopo due o
tre decenni di crescita e di diffusione di massa in tutto il mondo
occidentale, sembra segnare il passo e perdere quella caratura che dieci
anni fa, proprio a Rio de Janeiro, aveva chiaramente manifestato la sua
capacità egemonica.

Quattro (possibili) cause del declino

Proviamo a indicare almeno quattro possibili cause della (presunta) crisi
culturale dell’ambientalismo. Non per proporre una diagnosi definita e
definitiva ma solo e unicamente per avviare un dibattito.

1 .La crisi del pensiero globale. Dieci anni fa la sensibilità ambientale
era, soprattutto, una sensibilità globale, anche se fortemente radicata
nella realtà locale. «Pensa globalmente, agisci localmente», era il
fortunato slogan di quegli anni. C’era una percezione forte e diffusa di
vivere su uno stesso pianeta, di avere i medesimi problemi e c’era,
persino, la consapevolezza di non avere le medesime responsabilità. Con
grande naturalezza tutti i paesi riconoscevano i problemi comuni (ozono,
cambiamento del clima, erosione della biodiversità, deforestazione e
desertificazione, crescita demografica). E con altrettanta naturalezza i
paesi ricchi riconoscevano le proprie preponderanti responsabilità. Oggi
l’azione locale sembra prevalere sul pensiero globale. Non solo a livello
degli stati e dei governi, ma, in qualche modo, anche nella politica
quotidiana dei partiti e dei movimenti verdi. E persino ciò che resta della
dimensione planetaria ha smarrito gli antichi caratteri ambientali chiari e
inequivocabili per perdersi nella fumosa e confusa protesta dei nemici
della globalizzazione. La sensazione è che una parte del movimento
ambientale si sia “sciolto” nel variegato “popolo di Seattle”. Perdendo in
parte la propria identità e consumando qualche contraddizione: come evitare
infatti che il pensiero globale entri in conflitto con la lotta alla
globalizzazione?

2. La crisi del pensiero “costruttivo”. Una decina di anni fa il successo
dell’ambientalismo si basava su una cultura positiva. Si lavorava “per”
qualcosa, si lavorava per costruire lo “sviluppo sostenibile”. Intorno a
questa idea, che sfidava in modo fiero e vincente l’ideologia del mercato e
la sua assoluta supremazia, si manifestava una straordinaria capacità di
alleanza. Il movimento ambientalista aveva amici, alcuni caldi e sinceri,
altri freddini e ipocriti. Ma non aveva alcun grande nemico dichiarato (se
non alcune aziende e alcuni stati “petroliferi”). Oggi tra gli
ambientalisti sembra prevalere una cultura negativa. Si lavora spesso,
forse troppo spesso, “contro” qualcosa (contro l’economia globale; contro
le biotecnologie e, talvolta, contro la biologia molecolare tout court;
contro le grandi opere pubbliche) e meno attivamente “per” qualcosa
(debole, per esempio, è la battaglia per incrementare gli aiuti allo
sviluppo; debole la battaglia per la diffusione delle energie alternative;
debole la battaglie per il trasporto su ferro).

3. La crisi dell’ambientalismo scientifico. L’idea di sviluppo sostenibile,
nello scorso decennio, si fondava su temi (dal controllo demografico
all’economia ecologica; dai cambiamenti climatici alla erosione della
biodiversità) che avevano un carattere oggettivo prevalente. Erano temi che
si fondavano su solide conoscenze ed evidenze scientifiche. Ciò ha
consentito alla cultura ambientalista di farsi portatrice di una nuova
razionalità, solidale e scientificamente fondata. Moltissimi uomini di
scienza e intere comunità scientifiche riconobbero la portata sociale delle
loro azioni e le responsabilità che ne conseguiva. Addirittura nacquero
nuove discipline scientifiche per affrontare i temi portati alla ribalta
dal movimento ambientalista. Alcuni premi Nobel sono stati assegnati a
uomini di scienza che hanno lavorato sui grandi temi dell’ambiente. Per
questo molti scienziati teorizzavano e praticavano una “nuova alleanza” tra
scienza e ambiente. Oggi l’idea di sostenibilità si incarna in temi in cui
l’elemento oggettivo è, per un motivo o per l’altro, molto meno solido
(biotecnologie, agricoltura biologica, elettrosmog, ftalati). Ma che,
soprattutto, vengono affrontati con un approccio fortemente emotivo, che
spesso si lascia vincere da tentazioni mistiche (new age) o conservatrici
(neobucoliche). Tanto che oggi molti vedono nell’ambientalismo o, almeno,
in una sua componente rilevante, il portatore di una nuova irrazionalità,
fondata sul misconoscimento della scienza e della tecnica.

 4. Il brain drain ambientale. C’è, infine, un ultimo fattore generale che
concorre a spiegare la crisi dell’ambientalismo, che potremmo definire il
“drenaggio dei cervelli”. Il prestito umano, talvolta imponente, che il
movimento ambientalista ha concesso alla politica politicante. Il movimento
ambientalista, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni
Novanta, ha prodotto ovunque grandi intelligenze politiche. Persone colte,
preparate, oneste, portatrici di un progetto ideale. Una parte
considerevole di questo gruppo dirigente, negli ultimi anni, è passato
dalla politica di movimento alla politica di partito o a funzioni di
governo. E questo sia perché i dirigenti ambientalisti hanno colmato il
vuoto creato dalla crisi delle fonti tradizionali di formazione del
personale politico, i partiti. Sia perché molti tra quei dirigenti, in modo
più o meno lucido, hanno pensato che quella di governo potesse essere
un’attività più incisiva dell’attività di movimento.

Due esempi clamorosi

Il prestito si è rivelato certamente vantaggioso per la politica
politicante e per i governi. Quasi sempre e quasi ovunque i dirigenti
ambientalisti si sono rivelati ottimi politici e ottimi governanti.
Tuttavia il prestito non sempre si è rivelato vantaggioso per il movimento
ambientalista. Sia perché lo ha improvvisamente sguarnito dei dirigenti
migliori, senza dargli il tempo di formare una nuova classe dirigente
all’altezza della precedente. Sia perché si è creato un problema di
coerenza. Non sempre i dirigenti prestati ai partiti e ai governi hanno
potuto realizzare i loro progetti ambientali. Per citare solo due esempi
clamorosi: Al Gore, in otto anni di vicepresidenza degli Stati Uniti, non è
riuscito neppure ad avviare quel “Piano Marshall” per l’ambiente che
proponeva prima; Gro Harlem Brundtland, dopo aver teorizzato lo sviluppo
sostenibile, da primo ministro di Norvegia ha riaperto la caccia alle
balene, una pratica considerata l’emblema dello sviluppo non sostenibile.
Il problema della coerenza, che sempre si pone quando un movimento radicale
entra in governi di coalizione, ha contribuito non poco a dividere il
movimento ambientalista. Finendo per favorire posizioni fondamentaliste.
Non sappiamo se davvero siano queste la quattro cause principali della
(presunta) crisi della cultura ambientalista. Sappiamo, però, che i
problemi ambientali globali e locali ci sono. Che l'affermazione di certe
forze politiche e il trionfo dell'ideologia del mercato allontana la loro
soluzione. E che c’è bisogno più che mai di un movimento ambientalista
forte e lucido, che ripensa le cause della sua crisi, se vogliamo che il
concetto di sviluppo sostenibile sopravviva a George W. Bush e ai suoi
epigoni nostrani.