bove':agricoltura,quello che i liberisti non dicono



dalla stampa di martedi 12 giugno 2001
   
 Una requisitoria del «leader contadino» francese: 
i fatti smentiscono le tesi del Wto   
 Quello che i liberali non dicono  
   
 di José Bové 

L’umanità è alle prese con un temibile modo di pensare, simile a parecchi
altri a vocazione totalitaria e mondiale: il libero scambio. I guru e gli
zelanti servitori di questa dottrina (i «responsabili») affermano che non
c’è altro dio che il Mercato e chi lo vuole combattere è un eretico (gli
«irresponsabili»). Siamo dunque di fronte a un oscurantismo moderno, a un
nuovo oppio con il quale i sacerdoti-trafficanti rendono dipendenti i
popoli.Un articolo del direttore generale del Wto Mike Moore, comparso su
Le Monde del 26 maggio, illustra chiaramente i dogmi che si vogliono
imporre agli uomini e alle donne del pianeta.Le voci che denunciano il
credo liberista di Moore sono sempre più numerose, perché i danni da esso
generati sono visibili e le menzogne su cui si fonda grossolane. 
Prima bugia: le virtù autoregolatrici dei mercati, che sono alla base del
dogma. Questa mistificazione ideologica è smentita dai fatti. In
agricoltura, dal 1992, i paesi industrializzati si sono ampiamente aperti
ai mercati mondiali (gli Usa hanno instaurato il «fair act», politica
agricola che sopprime gli aiuti diretti alla produzione e lascia produrre
senza costrizioni) senza che questa evoluzione abbia placato i soprassalti
dei mercati. Al contrario, hanno conosciuto un’instabilità che non si
verificava dai tempi degli accordi di Marrakesh, nel 1995. Il risultato più
spettacolare della politica agricola americana è stato il boom degli aiuti
diretti e urgenti, per compensare il calo dei prezzi. Essi hanno raggiunto
un livello record di 23 miliardi di dollari nel Duemila (quattro volte più
di quanto era stato programmato dalla legge agricola del
1996).Contrariamente alle affermazioni dei liberali, i mercati hanno un
carattere spontaneamente instabile e caotico. L’intervento pubblico è
necessario per regolare i mercati e l’evoluzione dei prezzi, per assicurare
la remunerazione dei produttori e permettere il mantenimento dell’attività
agricola. 
Seconda grossolana bugia: la concorrenza produce ricchezza per tutti. Ma la
concorrenza ha senso solo se è compatibile con la sopravvivenza dei
concorrenti. Questa realtà riguarda soprattutto l’agricoltura, nella quale
le differenze nella produzione vanno da uno a mille tra l’agricoltore delle
pianure cerealicole del Middle West e il contadino che lavora con la vanga
nel cuore del Sahel. E’ ipocrita pretendere che la concorrenza sia sana e
leale, e che tenda all’equilibrio se le politiche agricole non
interferiscono nel libero gioco del mercato. Come si può porre sullo stesso
piano una maggioranza di produttori (1,3 miliardi di persone attive
nell’agricoltura) che coltivano solo manualmente o con l’aratro, con
un’infima minoranza (28 milioni di agricoltori meccanizzati) temibilmente
armati per l’esportazione? Come parlare di concorrenza leale quando gli
agricoltori più produttivi dei paesi ricchi beneficiano di incentivi
diretti e indiretti all’esportazione, di aiuti urgenti e assicurazioni
multiple contro il calo dei prezzi? 
Terza menzogna: i prezzi mondiali sarebbero un valido criterio per
orientare la produzione. Ma i prezzi riguardano solo una frazione molto
piccola della produzione e del consumo mondiali. Il mercato del grano
rappresenta appena il 12% della produzione mondiale. Gli scambi
internazionali si effettuano inoltre con prezzi non determinati
dall’insieme degli scambi, ma dai prezzi dei paesi esportatori più
competitivi. Il prezzo mondiale del grano è stabilito in base a quello
degli Usa, paese in cui la produzione, fra l’85 e il ‘98, è stata solo il
5,84% di quella mondiale. Inoltre va detto che si tratta di prezzi di
«dumping», (il paese importatore compra sottocosto dal paese produttore),
prezzi non sostenibili, economicamente, da parte degli agricoltori, se non
grazie agli importanti aiuti che ricevono come contropartita. 
Quarta menzogna: il libero scambio sarebbe il motore dello sviluppo
economico. I liberali vedono nel sistema di protezione doganale il
responsabile di tutti i mali: farebbe regredire gli scambi, la prosperità
economica, frenerebbe gli scambi culturali e il dialogo fra i popoli. Ma
chi oserà dire che l’esportazione massiccia di caffè, cacao, riso, banane,
che da decenni avviene verso i paesi del Nord, ha arricchito e migliorato
la vita dei contadini del Sud? Chi oserà dirlo guardando negli occhi questi
contadini? E chi oserà andare a dire agli allevatori africani, rovinati
dalla concorrenza della carne europea sovvenzionata, che la caduta delle
barriere doganali fa la loro felicità? Per ottenere fino in fondo i suoi
obiettivi, il libero scambio strumentalizza la scienza in nome del
«modernismo» e afferma che lo sfruttamento di ogni scoperta scientifica è
un progresso... quando è economicamente sfruttabile. Non tollera che un
essere vivente possa riprodursi da solo, gratuitamente, e corre ai
brevetti, alle licenze, ai profitti, all’esproprio forzato. In campo
agricolo non possiamo non citare la buffonata degli Ogm. Nessuno li chiede
ma devono rendere tutti felici! 
Mike Moore ci invita a piegarci all’evidenza: il riso geneticamente
modificato (detto cinicamente «dorato») nutre chi muore di fame e lo
preserva dalle malattie perché è ricco di vitamina A. Ma Moore non dice che
bisognerebbe mangiare 3 chili di riso al giorno (secco) mentre la razione
normale non supera i 100 grammi! La malnutrizione, che colpisce circa un
terzo dell’umanità, sarà combattuta con la diversificazione
dell’alimentazione. L’obiettivo si ottiene rimettendo in discussione un
ordine sociale spaventoso, sostenuto dal sistema economico liberale, che
cerca di mantenere i livelli salariali nei paesi del Sud più bassi
possibile per massimizzare i profitti. Da questo punto di vista è
giudizioso aggiungere vitamine nel riso dei poveri, affinché non muoiano
troppo velocemente e continuino a lavorare a basso costo, piuttosto che
sostenerli costruendo una società più equa e più libera.
Jacques Diouf, direttore generale della Fao, ha recentemente riconosciuto
che «per nutrire i miliardi di persone che hanno fame non c’è bisogno degli
Ogm». Ora capisce, signor Moore, perché i contadini indiani della «Via
Campesina», movimento internazionale dei piccoli agricoltori, distruggono i
campi di riso transgenico? La Fao non è la sola istituzione internazionale
a rimettere in discussione alcune certezze radicali del Wto sulle
benemerenze del liberismo. La liberale Ocse riconosce, in un recente
rapporto intitolato Il benessere delle nazioni, che il mantenimento e il
miglioramento dei servizi pubblici (sanità, insegnamento) è un fattore
chiave per capire il successo economico delle nazioni.
Tutto, dunque, ci porta a combattere il mito pericoloso del libero scambio.
Visti i suoi considerevoli danni sociali e ambientali, bisogna in modo
prioritario imporgli, tutti insieme, contadini e non contadini, tre
principi fondamentali: la sovranità alimentare (il diritto dei popoli e dei
paesi di produrre liberamente i loro alimenti e di proteggere gli
agricoltori dalla rovinosa «concorrenza» mondiale); la sicurezza alimentare
(il diritto di proteggerci da ogni rischio per la salute); la conservazione
della biodiversità. Al rispetto di questi principi dev’essere associato
l’obiettivo dello sviluppo solidale, ponendo in atto aree di partenariato
economico tra paesi vicini, basate sulla protezione dei gruppi di paesi con
strutture e livelli di sviluppo omogenei. 
Il Wto sogna di spingere ancora più lontano la sua logica liberale. Il
prossimo novembre, nell’isolamento di un paese che proibisce i partiti e le
manifestazioni politiche - il Qatar - cercherà di raggiungere i suoi scopi.
Ma se importanti organizzazioni internazionali si mostrano sempre più
critiche, e fanno vacillare le certezze, i cittadini che si mobilitano
possono sottomettere il commercio ai loro diritti. Tra la sovranità dei
nazionalisti e il libero scambio esistono vie alternative. Per riprendere
il tema del Forum mondiale sociale tenutosi in gennaio a Porto Alegre,
«sono possibili altri mondi!», che rispettino le culture e le particolarità
di ciascuno, in uno sforzo di apertura e di comprensione. Noi siamo felici
e fieri di partecipare alla loro nascita.