[Disarmo] Fwd: In Iraq con le vittime delle mine anti-uomo, «Le armi italiane ancora uccidono»




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Da: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
Date: mar 23 lug 2019, 13:56
Subject: In Iraq con le vittime delle mine anti-uomo, «Le armi italiane ancora uccidono»
To: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>


PROGETTO REALIZZATO
IN COLLABORAZIONE CON Emergency
Progetto realizzato in collaborazione conEmergency

In Iraq con le vittime delle mine anti-uomo, «Le armi italiane qui ancora uccidono»

di Amalia De Simone e Marta Serafini
Durante la guerra tra Bagdad e Teheran sono stati piazzati 10 milioni di ordigni, molti dei quali venduti dal nostro Paese. Ma ora, a distanza di 30 anni,
l’opera di bonifica sul confine non è stata terminata e si continua a morire

SULAYMANIYAH, GIUGNO 2019

Corriere della sera, 

«Ormai a questo pezzo di plastica mi sono affezionato. Ma all’inizio ho pianto, eccome se ho pianto». Mahmoud Marjaf, sta aspettando il suo turno per il controllo con il fisioterapista. Ha 50 anni. Era un peshmerga, un soldato curdo, oggi è un uomo senza una gamba.

Sorride mentre si accarezza la protesi. Amputazione dell’arto sinistro sotto il ginocchio. Mahmoud vive così dal 1999. Dolore, riabilitazione, visite su visite. «Non so che tipo di mina mi abbia fatto del male, alcuni mi hanno era detto che era tedesca ma non ne sono sicuro», dice abbassando gli occhi. Lui quell’arma che gli ha portato via la carne non l’ha mai vista. «Ero vicino al confine con l’Iran a Benjum, stavo camminando e all’improvviso ho scorso un lampo. E poi più niente».

Le mine sul confine Iraq-IranGuerra Iran-Iraq, guerra del passato, uno dei conflitti più lunghi del secolo scorso. Saddam Hussein da una parte, l’Ayatollah Khomeini, appena tornato dall'esilio per guidare la rivoluzione iraniana del 1979, dall’altro. Due Paesi vicini che si combatterono fino allo stremo senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere sull’altro. Nessuno sa con esattezza quanti ordigni esplosivi siano stati disseminati su quelle montagne, si parla di 10 milioni. Le vittime, quelle sì hanno un numero: sono state un milione.

E’ il 20 agosto del 1988 quando entra in vigore il cessate il fuoco. Su entrambi i fronti le ferite sono state profonde. Gli iracheni all’epoca sono ben armati ma per rimediare allo scarso addestramento dei soldati usano tonnellate di armi chimiche, i cui componenti arrivano anche dall’Europa e dagli Stati Uniti. Gli iraniani per ovviare alla mancanza di armi arruolano migliaia di bambini soldato. Troppo piccoli e deboli per essere utilizzati in combattimento, li inviano a ripulire i campi minati. «Li mandavano legati a gruppi di dieci - per evitare che qualcuno di loro potesse tirarsi indietro - a correre sulle mine per aprire una strada alle ondate degli assalti», si legge nelle cronache dell’epoca.

Buran Ahmadnajm, ferito nel 1995BURAN AHMADNAJM, FERITO NEL 1995Una mina ValmaraUNA MINA VALMARA

La guerra non è mai finita. Non finisce mai. «Al Teresa Rehabilitation Center dal 1998 ad oggi abbiamo curato oltre 6.000 piazenti», spiega Faris Hama, coordinatore medico di Emergency. A mettersi in fila tra le stanze della fisioterapia e quelle dove si fabbricano i calchi per le protesi sono per lo più i reduci di quel conflitto lontano. Le divise color cachi dei peshmerga, i sorrisi fieri nonostante la menomazione, le mogli dietro che assistono. Anche dopo trent’anni le cicatrici sono ancora lì. Ma non ci sono solo le ferite del passato da sanare. «Oggi abbiamo anche 400 pazienti che provengono da Mosul, colpiti dagli ordigni dell’Isis o dai raid», sottolinea Hama.

Sulaymaniyah, seconda città della regione autonoma del Kurdistan iracheno, la più vicina all’Iran. La più lontana da Bagdad e dalla sue lotte fratricide. Fu qui vicino, ad Halabja, che Saddam Hussein nel 1988 massacrò i curdi col gas. Ed è qui vicino che sono arrivati i primi sfollati in fuga dall’Isis, dopo che Al Baghdadi è salito sul pulpito della moschea di Al Nuri a Mosul nel 2014. Ed è sempre qui che oggi le tensioni tra Iran e Stati Uniti fanno soffiare nuovi venti di guerra. «Cosa succederà? Dovremo combattere ancora? Con chi ci dovremo schierare?», è la domanda che rimbalza mentre il sole infuocato di giugno tramonta e i bambini saltano su un materasso elastico.

Un paziente del Teresa Rehabilitation CenterUN PAZIENTE DEL TERESA REHABILITATION CENTER

Cinquanta chilometri a Est, verso il confine con l’Iran, a Golin Barbe, le cavallette saltano senza sosta. «Quest’anno siamo stati fortunati, ci hanno invaso ma almeno sono di quelle che non mordono. Che volete, noi curdi siamo abituati alle sciagure», scherza Dler Muhmad Alì, da 24 anni a capo del team di ricerca e bonifica dell’Ikmaa, la Iraqi Kurdistan Mine Action Agency. Dalle cinque e mezzo della mattina i suoi uomini sono impegnati sotto il sole. Il campo minato copre un’area di 39 mila metri quadrati. Di questi, quasi la metà sono ancora da pulire. «Prima di avvicinarsi chiunque deve comunicare il proprio gruppo sanguigno», avvisa. In caso di incidente l’ospedale più vicino è a due ore di auto. Nelle scorse settimane un pastore di un villaggio nei dintorni è morto, un altro è rimasto mutilato, il 14 maggio un membro del team di Alì ha perso due dita del piede.

Due tecnici salgono piano il crinale. Hanno appena piazzato i bastoni dipinti di bianco, blu e rosso che indicano se il terreno è “clean”, pulito, e se gli ordigni disinnescati possono essere rimossi. «Quando si parla di bonifica non esiste la certezza del 100 per cento, alcune mine restano nascoste nel terreno per decenni. Inoltre non abbiamo mappe su cui basarci, dobbiamo ricostruire le posizioni degli esplosivi sulla base dell’esperienza e dell’osservazione», continua Alì. Il termometro segna 43 gradi e ogni 40 minuti gli uomini devono fare una pausa per bere e spostarsi all’ombra. Addosso hanno in media otto chili di attrezzatura, tra protezione, caschi e strumenti. I meno esperti si sono addestrati per un mese, ma i veterani hanno anni di attività alle spalle e hanno imparato a fiutare una mina da lontano. «L’Iraq nel 2007 ha firmato il trattato di Ottawa che mette al bando gli esplosivi anti uomo e si è impegnato a bonificare tutta la regione. Eppure da Bagdad non stanno arrivando più fondi per le attività di sminamento. I nostri tecnici guadagnano l’equivalente di 800 dollari al mese».

Uno sminatore mostra un ordigno disattivatoUNO SMINATORE MOSTRA UN ORDIGNO DISATTIVATO

Mine anticarro. Mine antiuomo. Quelle a pressione esplodono quando vengono calpestate: lo scoppio dilania il piede e parte della gamba, ma se la carica è molto elevata può provocare danni anche al di sopra del ginocchio, alle natiche, ai genitali, e generare fratture ossee multiple ed esposte. Le mine “a frammentazione”, invece, uccidono all’istante chi le calpesta e provocano ferite su tutto il corpo a chi si trova vicino all’esplosione. «Le più difficili da scovare sono quelle cinesi, perché hanno basso contenuto di metallo. In questa zona ci sono 18 tipi di mine. E dieci sono italiane». VS 50 , TS 50, VAR 40. «Ma la più terribile è la V 69, la Valmara». A guardarla lì sdraiata nell’erba pare un giocattolo, un barattolo con le antenne. La leggenda narra che sia stata chiamata così in “onore” di una donna che voleva vendicarsi di una rivale. «Non so se sia vero ma sicuramente è più pericolosa di uno scorpione o di un serpente». Tradotto, la Valmara è una delle mine più diffuse al mondo che colpisce fino a 50 metri di distanza. «È made in Italy, made to kill».

***

LE MINEDall’Iraq e ritorno. A Castenedolo, in provincia di Brescia, Franca Faita, 70 anni, apre la porta della sua casa. Sorride. La signora Franca, come la chiamano tutti da queste parti, conosce la Valmara meglio di chiunque altro. «Ho lavorato per più di 30 anni come operaia prima alla Meccanotecnica poi diventata Valsella. Lì producevamo mine, ne fabbricavamo tantissime, si è parlato di 30 milioni». Uno dei clienti principali della Valsella è proprio l’Iraq. Nel 1983 gli affari vanno talmente a gonfie vele da far balzare il fatturato della società oltre la soglia dei 100 miliardi di lire. E il “merito” è soprattutto della guerra tra Bagdad e Teheran. Nella relazione di bilancio del 1981 si legge come l’azienda stia fiorendo grazie all’«acquisizione di importanti commesse nel settore militare e in particolare con il ministero della Difesa dell’Iraq» e al conseguente «potenziamento della struttura produttiva dell’azienda». Il grande balzo non si fa attendere. Un militare iracheno parlando con una televisione italiana afferma che nell’opposizione all’offensiva della fanteria di Khomeini «l’Iraq deve molto ad una piccola azienda bresciana». 
All’epoca molti operai della Valsella girano la testa dall’altra parte, gli stipendi sono buoni, il lavoro non manca. Ma la signora Franca e le sue compagne iniziano a fare domande. «Eravamo madri, cosa stiamo facendo, contribuiamo alla morte di bambini e giovani, ci chiedevamo. Ma eravamo sole, nessuno voleva darci ascolto». Nel 1984, attraverso l’acquisizione da parte della Borletti, la Valsella Meccanotecnica diventa una controllata del Gruppo Fiat. Ma le cose si complicano, dopo che l’Italia aderisce all’embargo contro Iran e Iraq. La produzione però non si ferma. E le mine lasciano il Paese in pezzi. «Sugli imballaggi c’era scritto “componenti di giocattoli”», racconta ancora la signora Franca. Dal porto di Talamone le casse vengono spedite a Singapore, dove la Valsella all’epoca ha un’altra società. E’ la triangolazione che consente ancora alle mine di arrivare a destinazione. Per altri tre anni tutto va avanti come nulla fosse.

Poi nel 1987, scoppia il caso. Il settimanale francese L’Événement du jeudi rivela che tra il 1981 e il 1984 l’azienda bresciana ha venduto all’Iran un milione di mine, con la complicità della società svedese Nobel Kemi e della francese Snpe, specializzate nella produzione di esplosivo, e con l’autorizzazione dello stesso governo italiano. Lo scoop del giornale parigino attiva le procure di Brescia, Venezia e Roma e fa divampare in Italia la polemica politica.

Buran Ahmadnajm, ferito nel 1995FRANCA FAITA, EX OPERAIA VALSELLAUna mina ValmaraUNA PUBBLICITÀ DELLA VALSELLA

Travolta dai processi e dalla moratoria del 1994 che mette al bando la produzione di mine anti-uomo in Italia, la Valsella si avvia a grandi passi verso il tramonto. Nel 1997 l’ong Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo, di cui Franca Faita è una delle voci più importanti, vince il premio Nobel per la Pace. Ma lei a ritirare il premio non ci va perché è impegnata nella battaglia per salvaguardare il posto di lavoro. Lotte, leggi, messa al bando e trattati internazionali. E’ la spinta della società civile ad accendere la luce sugli effetti devastanti di questo tipo di armi. «Alla Borletti amavano ripetere che le mine sono soldati perfetti, non mangiano, non dormono e fanno sempre la guardia. D’altro canto sono state le denunce e le testimonianze delle vittime e di persone come Gino Strada ad accendere i riflettori sui danni di questi ordigni», spiega Giorgio Beretta analista dell’Opal, l’Osservatorio per la produzione di armi leggere e politiche di sicurezza, e di Rete disarmo.

L’Italia non può più fabbricare mine ma l’export di armi non si è certo fermatoMa delle armi italiane vendute nel mondo per uccidere civili ancora si parla. «La vicenda della Valsella ha avuto il merito di portare alla legge 185 del 1990 che tra le altre cose obbliga il governo a presentare una relazione annuale al Parlamento sull’export di armi e condiziona l’autorizzazione delle vendite ad una valutazione sulla possibile violazione dei diritti umani e sui danni ai civili», sintetizza Carlo Tombola, Coordinatore scientifico dell’Opal. Passi in avanti che però non sono considerati dagli esperti sufficienti.

Alle prime luci del mattino sulla strada tra Sulaymaniyah e Erbil i camion si spostano lenti. A ridosso del checkpoint verso Mosul le macerie delle case distrutte dall’Isis si stagliano all'orizzonte. Un medico scuote la testa. «Ora, qui abbiamo una nuova guerra da combattere e sono gli ordigni inesplosi piazzati da Daesh che ancora uccidono anche se i combattimenti sono finiti». Proprio come le mine della guerra Iran-Iraq.

DI AMALIA DE SIMONE E MARTA SERAFINI