[Disarmo] Assad (e gli altri) alla corte dello zar




Assad (e gli altri) alla corte dello zar di Alberto Negri - 22 novembre

In Medio Oriente finisce una guerra, quella contro l’Isis, e forse ne comincia un’altra. I vertici della repubblica islamica degli ayatollah, in vista del vertice trilaterale di oggi a Sochi sulla Siria con Russia e Turchia - già preceduto da un incontro tra Putin e Assad - hanno dichiarato che la guerra al Califfato è vinta: un segnale che secondo loro può cominciare la spartizione in zone di influenza.

L’agenda però la dettano i russi, entrati in guerra a fianco di Damasco nel settembre 2015, mentre i turchi sono soddisfatti dalla presenza militare nel Nord della Siria in funzione anti-curda e Israele continuerà a occupare le alture del Golan conquistate nel 1967. Gli iraniani puntano a mantenere quell’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah che rende furibondi i sauditi e nervosi gli israeliani. Il casus belli è sempre questo da oltre tre decenni: la repubblica islamica sciita, persiana ed erede di un impero millenario.

Gli Stati Uniti con la Russia dovrebbero sancire questa spartizione dove convivono in un affollato condominio militare. L’accordo tra Putin e Trump (ieri i due presidenti hanno avuto un colloquio telefonico di circa un’ora) potrebbe essere il risultato della dichiarazione di Da Nang, al vertice asiatico dell’Apec, quando in un raro comunicato congiunto hanno affermato di concordare sull’«integrità della Siria e la sua sovranità». Quanto sarà integra e sovrana la Siria per la verità è nebuloso: i russi hanno insistito con Assad per fare un accordo con l’opposizione e chiudere la partita. Anche se è evidente che Mosca manterrà le basi in Siria e gli Usa un contingente militare, che pur vittorioso con i curdi siriani a Raqqa, appare vulnerabile per la presenza di Assad e delle milizie sciite. Mentre è fuori discussione che gli americani resteranno in Iraq, a maggioranza sciita e alleato dell’Iran, dove sono presenti le truppe di una dozzina di Paesi, Italia compresa.

Il quadro è una sorta di concentrato balcanico-mediorientale esposto a ogni deriva incendiaria.

Da questa ipotesi di spartizione vengono emarginate le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, che hanno sostenuto la guerra per procura contro Assad e l’Iran. Possono sperare in qualche compensazione nei negoziati dell’Onu ma sono briciole rispetto all’obiettivo che perseguono dal 1979, quando la rivoluzione di Khomeini fece fuori lo Shah: in questa rivalità hanno investito 60 miliardi di dollari nella guerra di Saddam contro Teheran e molti altri ancora sostenendo i gruppi radicali sunniti e jihadisti. Non solo: Riad è impantanata in una guerra in Yemen che non riesce a vincere contro gli Houthi, la tribù sciita zaydita sostenuta da Teheran. Per i Saud, custodi della Mecca e riferimento di un miliardo e mezzo di musulmani, è quasi un’umiliazione.

Gli arabi del Golfo devono però lamentarsi con se stessi e i turchi: sono stati mollati da Erdogan, il quale dopo essersi proposto come il leader dei sunniti, appoggiando i Fratelli Musulmani in Egitto e la guerriglia contro Assad, ha fatto buon viso a cattivo gioco e, pur di sigillare le frontiere all’irredentismo curdo, ha abbandonato il campo occidentale della Nato e gli arabi per mettersi d’accordo con Putin e Teheran. Tutto questo è il risultato dei calcoli sbagliati degli arabi e degli occidentali: nel 1980 Saddam pensava di abbattere Khomeini, sostenuto dai soldi del Golfo, poi ha dovuto firmare una tregua sullo Shatt el Arab. Nel 2001 gli americani in Afghanistan credevano di mettere fine al terrorismo che invece è ancora una spina nel fianco anche dell’Europa. Nel 2003 gli Usa hanno fatto fuori Saddam e regalato all’Iran una vittoria strategica. Nel 2011 puntavano con Turchia e monarchie arabe a eliminare Assad e invece hanno riportato la Russia da protagonista in Medio Oriente.

La precarietà è così palpabile che il presidente libanese cristiano Michel Aoun ha messo in stato di allerta le truppe ai confini con Israele. Una decisione che riguarda anche l’Onu e l’Italia che ha il comando del contingente Unifil per sorvegliare la tregua del 2006: 11mila soldati, di cui un migliaio della Folgore. L’attuale quadro politico libanese è figlio dell’accordo tra i cristiani di Aoun e gli Hezbollah, accettato anche dai sunniti guidati dal premier dimissionario Saad Hariri.

Tenendo a Riad come una sorta di ostaggio Hariri e spingendolo alle dimissioni, i sauditi si sono giocati la loro carta per far capire che possono destabilizzare il Libano e la regione. Una mossa che dal punto di vista dei libanesi, e non solo, è apparsa indecente e forse costringerà i sauditi a puntare su un altro cavallo. Hariri, che oggi dovrebbe tornare a Beirut, non potrà eseguire il compito assegnato da Riad sotto dettatura.

E veniamo alle chance di pace e di guerra. Più o meno si bilanciano. Sono in gran parte legate alla capacità di Usa e Russia di tenere a bada i loro ribollenti alleati nella regione. Ma dipendono anche da calcoli meno nobili rispetto alla necessità di stabilizzare una regione chiave per la sicurezza europea. Gli Usa - ma anche la Francia - sono condizionati da Israele e dalle forniture di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati: hanno innescato, in cambio di miliardi di dollari, una corsa agli armamenti senza freni. Basta scorrere i dati 2016 dei bilanci della difesa: Usa 611 miliardi di dollari, Cina 215, Russia 69, Arabia Saudita 64, Emirati 23, con solo 1,5 milioni di abitanti, Iran 12, con una popolazione di 80 milioni. Ecco perché finita una guerra, un’altra potrebbe cominciare.


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