scoop ritardato sulla vittoria delel vittime all'uranio impoverito



----- Original Message -----
From: Marcao at tiscali.it

Sent: Thursday, April 28, 2005 9:08 PM
Subject: scoop ritardato


Il  27  e il  28  c.m   la stampa sarda e italiana hanno ripreso una nota
del ministero della Difesa e hanno dato "notizia" della vittoria del
maresciallo Diana nella sua lotta per il riconoscimento delle responsabilità
da parte del governo italiano sui tumori che lo stanno uccidendo.
La notizia del riconoscimento del danno biologico, ottenuto lo scorso
dicembre, è stata data da Marco Diana il 16 aprile in un convegno tenutosi
ad Alghero alla presenza di vari giornalisti, è stata pubblicata solo da
Liberazione del 23/4 accompagnata da un'ampia intervista.
Come mai si diramano comunicati solo adesso, a notizia pubblicata?? Come mai
la stampa interviene a scoppio ritardato??
Il riconoscimento della responsabilità da parte dell'amministrazione statale
è un precedente che apre un varco per ottenere verità e giustizia anche
sulle leucemie e alterazioni genetiche che devastano le popolazioni
costrette a convivere con il poligono della morte "Salto di Quirra" e non
solo.

Comitato sardo Gettiamo le Basi

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Liberazione 23 aprile 2005

Cancro "di servizio"
per il maresciallo Diana

Reduce dalla Somalia è il primo in Italia a ricevere
un risarcimento transattivo per la malattia contratta da militare

Walter Falgio
Cagliari - nostro servizio

Adesso Marco Diana ha stravinto. La sua battaglia contro l'amministrazione
dello Stato, combattuta con chili di carta bollata e pool di avvocati, è
giunta al termine. Al maresciallo dei Granatieri di Sardegna reduce da
decine
di missioni, colpito da tumore all'intestino, «sottoposto a disagi fisici,
climatico ambientali, stress psichici, disordini alimentari», come elenca
il suo legale, è stato assegnato un risarcimento complessivo. E la vicenda
è chiusa.
Ad attestarlo, poche righe nel miglior burocratese che rappresentano prima
di tutto il riconoscimento di un diritto fondamentale, sancito pure da una
sentenza della Corte dei Conti, e naturalmente un precedente
importantissimo.
Il primo caso in Italia di risarcimento transattivo per un soldato che si
è ammalato di cancro a causa del servizio. In poche parole, un'ammissione
di responsabilità da parte dello Stato.
La prima raccomandata della Direzione generale per il personale militare
del ministero della Difesa datata 17 dicembre 2004 e indirizzata
all'avvocato
cagliaritano Giancarlo Peddis, recita: «In accoglimento della richiesta
risarcitoria del suo assistito, si comunica che verrà formulata quanto prima
un'offerta transattiva». "Quanto prima" significa 25 febbraio scorso: stesso
mittente, stesso destinatario e in calce la proposta economica riparatrice.
Impossibile quantificare in euro la complessità dei danni che Marco Diana
ha subito a causa della sua attività militare. Quella cifra, il maresciallo
di Villamassargia non ha nessuna intenzione di renderla nota perché, spiega,
«in primo luogo non è importante sapere quanto mi hanno dato, in secondo
luogo la mia non è una battaglia personale, ma vuol essere l'indicazione
di una strada da seguire per tutti gli altri militari che, come me, hanno
dato tutto per la Patria e oggi si ritrovano a un passo dalla morte». Il
sottufficiale premette che accetterà la proposta formulata dal ministero
senza ulteriori ricorsi e nel salotto di casa, con una forza e una serenità
straordinari, comincia a raccontare la sua storia. «Inutile negare che sto
aspettando la fine. Arriverà improvvisamente, appena il carcinoide subirà
la metamorfosi. Aspetterò un anno o forse dieci, con la mia fede in Cristo
e senza rancori. A chi gioverebbero?». Nessun atto d'accusa, nessuna
condanna
ma una storia che, almeno dal punto di vista burocratico, si è conclusa
bene. «Perché, arrivati a questo punto posso dire che il governo ha fatto
ciò che era giusto fare», aggiunge. Diana non punta il dito ma ringrazia:
«La mia riconoscenza va al sottosegretario Cicu, all'associazione Granatieri
di Sardegna, a Consiglio regionale, Giunta e presidente Soru, ai senatori
Forcieri e Malabarba, a Falco Accame», senza dimenticare il suo paese,
Villamassargia,
con sindaco in testa.
Ma le parole animate da una dilagante volontà di conciliazione, contrastano
con il dramma personale e incancellabile che il maresciallo si porta dentro,
dignitosamente, senza clamore.
Accademia sottufficiali di Viterbo, specializzazione in missilistica,
istruttore
militare di educazione fisica, Diana è assegnato nel 1991, a 22 anni, alla
32esima Compagnia controcarro dei Granatieri di Sardegna. «Si trattava di
un'unità operativa che doveva essere pronta a partire in qualunque momento
per qualunque missione. Allora ero responsabile della linea carri, mi
occupavo
della manutenzione dei mezzi cingolati. Maneggiavo oli idraulici, solventi,
detergenti, sostanze mutagene e cancerogene, batterie, acidi, senza guanti
e senza mascherine. Le protezioni non esistevano perché non si acquistavano
e farne richiesta comportava procedure troppo lente e complesse. Quando
potevo compravo di tasca mia guanti in lattice, pennelli e camici. Ma solo
quando potevo». Nel '92, sciolta la 32esima Compagnia, Diana è nominato
responsabile dell'armeria convenzionale e non convenzionale del II
Reggimento
Granatieri. «Lavoravo tra mitragliatori, mortai pesanti, materiali Nbc,
impianti criogenici che producono ossido di carbonio. Tutto questo era
custodito
in edifici senza apparecchi di aspirazione, con tetti in tegole, pareti
in cartongesso, senza nemmeno l'ombra di porte stagne, sistemi di sicurezza
o cemento armato». Poi è arrivata la Somalia, 1993 e 1994, Servizio scorte
e sicurezza del reparto logistica: «Solo due esempi. Quando si bonificavano
i mezzi corazzati utilizzavamo degli idranti ad alta pressione caricati
con acqua e sostanze chimiche. Noi, italiani, ci immergevamo nella
nebulizzazione
in pantaloncini e maglietta, gli americani avevano mascherine in gomma,
guanti e tute speciali. A volte ci capitava di viaggiare per giorni dentro
i carri con i serbatoi bucati e a temperature che sfioravano i 60 gradi.
Il gasolio filtrava nella paratia stagna dell'autoblindo e si depositava
sotto i nostri piedi. Nessuna guarnizione proteggeva l'abitacolo e si
trascorrevano
ore ed ore a contatto con le esalazioni del carburante. Sotto i nostri
genitali
c'erano apparati radio da 15mila volt in trasmissione e ricezione continua».
Come se non bastasse, i militari italiani nell'inferno somalo hanno fatto
da cavie per la sperimentazione di un nuovo rancio alimentare, la Razione
k. Diana è incontenibile, racconta, ricorda, sciorina dati precisissimi,
documentati, per due ore di fila. «Vogliamo parlare della polvere biancastra
che si accumulava sulle braccia nude dopo i bombardamenti americani? E
dell'accampamento
dell'Esercito sotto le ciminiere di Gela durante i Vespri siciliani? E dei
30 giorni di lavoro al mese, dalla mattina alla notte, quando eravamo
impegnati
nel terremoto di Umbria e Marche? Posso provare ogni cosa, ho tutto nero
su bianco». Durante le operazioni in occasione del sisma, Diana si è
guadagnato
diversi encomi, la popolazione gli ha donato una medaglia fusa con l'oro
dei gioielli. E poi è arrivata la febbre, altissima. Era il 1998. «Alla
fine del 2004 la professoressa Antonietta Gatti dell'Università di Modena
mi ha mandato la valutazione dei reperti biologici. Nel mio corpo ci sono
nano e microparticelle di ferro, titanio, alluminio, silicio, stagno, e
altre di bario, fosforo e zinco. Una parte delle corazze dei carri armati
la porterò sempre dentro di me».