[Diritti] ADL 161013 - L'operaio conosce



L'AVVENIRE DEI LAVORATORI

La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu

Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894

Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo

Direttore: Andrea Ermano

 

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e-Settimanale - inviato oggi a 45964 utenti – Zurigo, 13 ottobre 2016

  

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IPSE DIXIT

 

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Dario Fo (1926-2016) in una popolare scena de

“Lo Svitato”, film del 1956 diretto da Carlo Lizzani.

 

 

L’operaio conosce 300 parole - «L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone». – Dario Fo (1969)

 

Nebbia della sera  - «C'è una nebbia della sera calante sulla città

Una luce stellare sullo specchio del fiume

Il potere d'acquisto del proletariato è andato a fondo

Il denaro sta diventando sempre più fatuo e debole

Il luogo che amavo è al più un dolce ricordo

È il nuovo sentiero da noi percorso

Dicono che i salari bassi sono una realtà

Se vogliamo competere con l'estero». – Bob Dylan (2006)

 

   

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Addio Dario Fo,

amico dei lavoratori

 

Ricevette nel 1997 il Nobel per la Letteratura "perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi”. Pochi mesi la sua firma per la “Carta dei diritti universali del lavoro”. Il cordoglio della Confederazione di corso d'Italia: "Si è sempre schierato per i diritti". La Cgil Lombardia lo ricorda come "compagno di tante lotte, sempre difensore dei più deboli".

 

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Dario Fo, Nobel per la letteratura 1997, mentre firma

la “Carta dei diritti universali del lavoro” lo scorso 16

aprile alla Fiera del libro indipendente di Bergamo.

 

“La tua firma per la nostra Carta dei diritti universali del lavoro. Vogliamo salutarti ricordandoti schierato per i diritti”. Così la Cgil nazionale su Twitter nel ricordare Dario Fo, grande attore e drammaturgo, regista, scrittore, premio Nobel per la Letteratura, ma anche pittore, scenografo e impegnato attivista.

    È morto questa mattina (13 ottobre) all'età di 90 anni all'ospedale Sacco di Milano dove era ricoverato da alcuni giorni. Da circa due settimane soffriva di forti dolori alla schiena. Secondo le prime informazioni sarebbe stato ricoverato per una serie di complicazioni polmonari.

    La Cgil Lombardia saluta “con tristezza e grande affetto Dario Fo, artista geniale, compagno di tante lotte, amico della classe lavoratrice, sempre difensore dei più deboli”.

    “Conoscere è sapere leggere, interpretare, verificare. La conoscenza ti fa dubitare. Il nostro saluto a DarioFo”, aggiunge la Fp Cgil lombarda sempre su Twitter.

   

    

Importante servizio con le ultime

foto di Rocchelli su L’Espresso

 

DITECI PERCHÉ

È STATO UCCISO

ANDREA ROCCHELLI

 

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La foto, di cui qui sotto riportiamo un dettaglio tratto dal servizio di Tiziana Faraoni sull’Espresso (vai al sito), appartiene agli ultimi istanti di vita del fotografo che l’ha scattata, Andrea Rocchelli, come pure del giornalista che vi è ritratto, Andrej Mironov. Entrambi, giornalisti inermi, verranno di lì a poco uccisi da una granata o da un colpo di mortaio. Le indagini non dicono molto né sulla dinamica né sulle cause né sulle motivazioni di questo duplice assassinio.

    Per la prima volta parlano Rino Rocchelli ed Elisa Signori, i genitori del fotografo morto nel 2014 a Sloviansk (vai al sito). Lucia Sgueglia li ha intervistati sulla situazione delle indagini, che si può riassumere così: “L’Ucraina vuole chiudere l’inchiesta. Senza cercare chi ha sparato”.

    Mezz’ora prima dello scatto qui sotto, i due reporter vittime della guerra civile scatenatasi in Ucraina erano scesi dall’auto e avevano iniziato a perlustrare la zona, alla periferia di Sloviansk. Era il 24 maggio del 2014, il luogo appariva tranquillo, il conflitto non aveva iniziato ancora la sua terribile escalation.

    All’improvviso la piccola troupe con Rocchelli e Mironov, visibilmente non armata, era stata fatta oggetto di raffiche d’arma da fuoco. Subito l’intero gruppo era corso a rifugiarsi dietro una specie di terrapieno, in un avvallamento del terreno: è il luogo che si vede qui sotto, ormai già offuscato dalla polvere delle granate che piovono sistematicamente per almeno un quarto d’ora.

 

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    Alla fine di questo attacco, furioso quanto ingiustificato, rimangono a terra esanimi Andrea Rocchelli e Andrej Mironov, ma forse anche un’altra persona di cui a tutt’oggi non si conosce l’identità: è il “quinto uomo” di cui, a quanto ci risulta, non si fa parola nelle carte delle autorità ucraine.

    I genitori di Rocchelli lanciano un appello: «Né noi né sua sorella Lucia né la sua compagna Mariachiara abbiamo obiettivi di vendetta. Vogliamo però certo sapere com’è andata, conoscere la dinamica dei fatti. Che si faccia luce sul caso con serietà e onestà, senza mistificazioni, e venga fatta giustizia. È chiaro che chi fa questo lavoro si espone al rischio. Ma non deve passare con facilità l’idea che l’uccisione di un giornalista venga considerata un rischio fisiologico del mestiere, la sua morte un “danno collaterale”, “normale” in situazioni di pericolo, o in una guerra non dichiarata come questa».

 

  

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    L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà.

    

    

EDITORIALE

 

A nove anni dalle prime primarie del PD

 

Entrando nel merito della Questione

 

di Andrea Ermano

 

Domani sono nove anni dalle prime primarie del PD, le primarie “costituenti” che il 14 ottobre del 2007 incoronarono Walter Veltroni lider maximo del “partito nuovo”. Tre milioni e mezzo di cittadine e cittadini “dem” si recarono quel giorno a votare in uno dei dodicimila seggi sparsi per tutta Italia. I famosi “gazebo” avrebbero dovuto rima­nere aperti fino alle otto di sera, ma la massa affluita per celebrare la nascita del nuovo partito era così straripante che l'orario di chiusura dei seggi venne posticipato quasi ovunque di almeno un paio d’ore per consentire a tutti di partecipare allo storico evento, e di raccontare un giorno ai nipotini: Quel 14 ottobre c'ero anch'io! Fu un vero, grande trionfo.

    Io non c'ero. Lo so che questo conta come il due di coppe, ma non comprendevo, allora, né capisco tuttora, il senso di primarie (senza regole) allo scopo di plebiscitare un candidato predestinato a una carica di partito incontendibile.

    Aborrivo decisamente il duplice disegno che Veltroni covava in pectore: far fuori il Governo Prodi per correre “solo” (solo con Di Pietro) verso elezioni anticipate, onde eliminarvi i “cespugli” del centro-sinistra italiano e ciò grazie a un uso particolarmente violento del Porcellum allora in vigore.

    Non condividevo assolutamente la fuoriuscita della sinistra italiana dal PSE.

    La catastrofe che seguì alla nascita del PD veltroniano lascia tutt'oggi senza fiato. Furono perse città, province e regioni nonché il governo del Paese, tolto a Prodi e riconsegnato a Berlusconi. E il Cav., dal 2008 al 2011, condusse l'Italia alla soglia della bancarotta morale e mate­riale, mentre gli alleati riformisti d'Europa scuotevano la testa costernati e Walter s’era frattanto ritirato a vita privata.

    Se il battito d'ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano nel Mar della Cina, ebbene l’indimenticabile tocco del fuoriclasse Veltroni provocò invece un disastroso spostamento a destra dell'asse politico italiano, europeo e financo terrestre. Né più né meno.

 

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Il tocco del fuoriclasse

 

Perché stupirsi se oggi molti, in Europa, recalcitrano all'idea di immolarsi per la “flessibilità” (cioè i miliardi a debito) di cui Palazzo Chigi avrebbe bisogno. Il premier Renzi si lamenta di ciò, e non ha tutti i torti. Egli giustamente chiede il superamento del rigore. Reclama il sostegno eurosocialista.

    Ma “vai a fidarti”, ti ribattono in Europa, dove stabilmente si associa la politica italiana alle più fantasiose e crudeli forme del machiavelli­smo. Non che loro, gli europei, siano stinchi di santi, tutt’altro, ma nei migliori trattati di Storia Universale della Slealtà non può ormai mancare un capoverso dedicato alla condotta del leader post-comunista, Occhetto. Il quale prima andò a piangere da Craxi per ottenere l'ammissione nella famiglia socialista del PCI finito sotto le macerie del Muro di Berlino. Poi – avuta la grazia, gabbato lo santo – coperse il leader socialista di sangue, merda e monetine. Infine, salendo sulla “gioiosa macchina da guerra”, fece cadere il governo Ciampi e andò miseramente a sbattere. Consegnando il Paese alle destre.

    In effetti, gli ex democristiani e gli ex comunisti italiani – pur proclamandosi fautori dei Valori non meno che della Questione morale – hanno alle spalle un'efferata tradizione di machiavellismo politico. Con strascichi disastrosi. Per la fine della DC vedi alla voce Aldo Moro, per la fine della prima Repubblica vedi alla voce Raphaël, per la fine dell’Ulivo vedi alla voce “corro solo”.

    Ma non serve andare tanto indietro nel tempo. Bastano a capire anche i casi più recenti: quello di Enrico Letta (“Enrico, stai sereno”) e soprattutto la triste vicenda di Pierluigi Bersani. Il quale Bersani, in qualità di segretario del PD, aveva faticosamente lavorato alla ritessitura dei rapporti a sinistra e alla tenuta del “Sistema Italia”.

    In fondo, quel poco d’equilibrio politico sopravvissuto alle approssimazioni e alle improvvisazioni di questi anni poggia ancora tutto sulla “non vittoria” bersaniana del 2013. E stendiamo perciò un velo pietoso sopra la centuria dei franchi tiratori che, alle votazioni per l'elezione del Capo dello Stato, impedirono la salita di Prodi al Colle e indussero Bersani alle dimissioni. Difficile a questo punto per il premier Renzi appellarsi a Prodi, come giustamente rileva Bersani: “Ma come fa a paragonarsi a Prodi? Ci vogliono più umiltà e senso delle dimensioni. In quel governo c'erano Ciampi e Napolitano, ci davamo del lei, mica facevamo la legge di Bilancio in dieci minuti per andare ai tg. Abbia­mo lasciato il debito al 103 per cento, ora è al 133 per cento, ma vedo che si continua a chiedere flessibilità per fare i bonus e altri debiti. Renzi parla tanto di futuro, poi carica così le spalle dei nostri figli”.

    E allora, compagno Renzi, a che serve adesso intonare le lamen­tazioni contro una sempre troppo pavida socialdemocrazia in Europa, se poi la tradizione machiavellista di cui il PD è intriso si scarica nel tuo stesso partito in un clima di assoluta sfiducia reciproca tra maggioranza e minoranza interna?!

    Nondimeno dispiace – dispiace davvero – assistere a questo dramma sconclusionato. Sì, dispiace, perché al di là di tutto il premier Renzi guida un'azione di governo che è di per sé condivisibile sia sul piano europeo sia su quello delle politiche umanitarie.

    Anche perciò alcuni osservatori internazionali guardano oggi all'Ita­lia con simpatia. E si domandano preoccupati che cosa succe­derebbe se al Referendum costituzionale del 4 dicembre vincesse il No.

    Bella domanda. Una vittoria del No comporterebbe la fine dell’Italicum, oltre che della Revisione costituzionale, ma non la conclusione della carriera politico-governativa del premier Renzi.

    E però che cosa accadrebbe se vincesse invece il Sì?

    Chi teme che la stagnazione non finirà, che l'immigrazione non fini­rà, che l'antipolitica non finirà, sa che l'Italicum tra due anni scarsi potrebbe far cadere sia Mon­te­ci­to­rio sia Palazzo Chigi in mano populista. E a quel punto la Revisione costituzionale Renzi-Boschi sareb­be pronta a dare il peggio di sé.

    A quel punto – a parte la nomina dei giudici della Consulta e tutto il resto che non è qui neanche il caso di elencare – in linea di tiro entrerebbero il Qui­ri­nale e la stessa Carta costituzionale.

    La Costituzione resta, infatti, modificabile a colpi di maggioranza. Non dimentichiamo che “maggioranza” qui significa “minoranza” (minoranza geneticamente modificata in senso maggioritario). Sicché, grazie all’Italicum e all'Art. 138 della Co­sti­tuzione (così concepito quando c'erano il proporzionale e il bi­came­ralismo paritario) tutto, ma proprio tutto, diverrebbe possibile, inclusa la legittimazione di refe­rendum tipo Brexit sulla permanenza o meno dell'Italia nell'UE. Basterebbe cambiare la Carta a colpi di “mag­gioranza” (cioè di “minoranza”).

    Ma, prima dell’ennesima catastrofe, domanderete voi, non potrebbe il Capo dello Stato bloccare tutto, rifiutandosi di firmare? Chi si ag­grap­pa a questa speranza, tenga presente per favore che dentro la rou­lette russa del “combinato disposto” tra Revisione Renzi-Boschi e Ita­licum si cela un'ulteriore pallottola letale: la deposizione del Capo dello Stato.

    Su questo punto delicatissimo l'Art. 90 della Costituzione (anch'esso risalente a quando c'erano il proporzionale e il bicameralismo paritario) prevede che: “Il Presidente della Repubblica (…) è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.

    E dunque sorge spontanea la domanda: quanti voti servirebbero al possibile vincitore populista nel ballottaggio dell'Italicum per mettere in stato d'accusa l'inquilino del Quirinale?

    Ventisette.

    Secondo la Revisione Renzi-Boschi la somma dei seggi del Parlamento a camere riunite ammonterebbe, infatti, a 731 grandi elettori: 630 deputati, 100 senatori e un Presidente emerito. Pertanto, la maggioranza assoluta consterebbe di 367 voti, laddove l'Italicum già ne avrebbe però assegnati 340 al vincitore del ballottaggio. Al quale basterebbe appunto reperirne altri ventisette soltanto, tra i cento membri del Senato nuovo, per poter dare il via all'assalto del Colle.

    Sic stantibus rebus, noi ci domandiamo, con viva preoccupazione, se chi di dovere non si renda ben conto del rischio che una possibilità di questo genere comporta per le istituzioni repubblicane già solo nel suo profilarsi in via ipotetica.

           

 

SPIGOLATURE 

 

Stavolta è tardi

 

I pesi massimi repubblicani si affannano, con capriole da circo, a prendere le distanze da un candidato prima sostenuto senza vergogna e ora diventato di colpo ingombrante. Non è mai troppo tardi?

 

di Renzo Balmelli 

 

AMBIGUITÀ. Dopo la bufera sulle parole sessiste di Trump, nel GOP – il Grand Old Party repubblicano – di grande sono rimaste due cose: il caos in un clima di guerra civile secondo l'analisi del New York Times, e il fuggi-fuggi disperato dei pesi massimi del partito che con capriole da circo si affannano a prendere le distanze da un candidato prima sostenuto senza vergogna e ora diventato di colpo ingombrante. Certo, cambiare idea è legittimo e dopotutto non è mai troppo tardi per fare ammenda. Stavolta però no. Stavolta è davvero tardi e nessun espediente dei voltagabbana riuscirà a rammendare i guasti provocati dall'irrazionale deriva estremista della destra americana. Tanto più che il ravvedimento appare poco plausibile e dettato, più che altro, non dalle preoccupazioni per il bene del Paese, ma per il proprio tornaconto e il timore di restare a secco di poltrone. In questa sceneggiata, ex ministri, senatori, governatori e deputati sfidano il giudizio della storia avvolgendosi in una cappa di ipocrisia che la grande scrittrice Carol Oates sul Corriere della Sera bolla quale "ambiguità etica".

 

APOCALISSE. A volte la politica, a dispetto delle sue magagne, riesce ad accendere improvvisi bagliori, magari di breve durata, ma capaci per un istante di riscattarla dallo squallore in cui l'ha confinata il populismo imperante. Così, mentre Obama sul finire del suo mandato si spinge oltre i confini del mondo e regala agli americani il sogno di realizzare un giorno la conquista pacifica di Marte, Hillary Clinton, di par suo, si colloca quale baluardo tra gli Stati Uniti e l'Apocalisse. Poiché questa sarebbe la prospettiva in caso di una vittoria del suo rivale. Ammesso che i sondaggi non prendano l'ennesima cantonata, sembra che la cavalcata di Donald sia destinata a fermarsi sulla soglia della Casa Bianca. In queste elezioni, tuttavia, potrebbe accadere qualsiasi cosa nelle ultime settimane, ragion per cui è bene sperare, ma anche prepararsi al peggio. Scongiurato il rischio di vedere il repubblicano eletto Presidente, rimane comunque l'interrogativo sul futuro del "trumpismo", con tutto quanto di negativo comporta. Certe ricette di facile suggestione sono dure da sradicare. Lo si vede anche in Europa dove il “lepenismo” edulcorato di Marine, il leghismo senza Bossi e il berlusconismo rielaborato hanno sì cambiato il doppiopetto, ma in sostanza sono uguali a prima, se non peggiori. Difatti, guarda caso, sono molti in quella galassia gli estimatori di Trump.

 

MOSSA. A tre mesi dal referendum, la Gran Bretagna del Brexit ha gettato la maschera riposizionandosi in modo sempre più marcato nel ruolo defilato rispetto al Continente che fu già suo. Guidato non tanto dalla ragione bensì dalle emozioni, il cambio di passo sembra una mossa obbligata per sviare l'attenzione dalle pesanti ricadute interne del referendum. Nuove stime sull'uscita indicano infatti che potrebbe costare fino a 73 miliardi l'anno, con gravi conseguenze per il Pil. Le tendenze neo isolazioniste si sono manifestate in modo clamoroso con il varo delle liste di proscrizione nei confronti dei lavoratori stranieri, liste che non contribuiscono certo a rendere meno conflittuale il divorzio dall'UE, ma che hanno già provocato un coro di reazioni indignate. Intuita l'impopolarità del provvedimento, il governo conservatore ha fatto marcia indietro attenuandone i passi più scabrosi e punitivi. Permane tuttavia il disagio per il contraccolpo subito dall'immagine di una delle nazioni più ospitali del mondo, ora non più immune dal nazionalismo. 

 

FUGA. Addio, Italia bella. Non corrono più alla stazione con le valige di cartone, ma oggi come allora gli italiani se ne vanno, varcano la frontiera per raggiungere le mete favorite. In cima alle preferenze la Germania, la Svizzera, la Gran Bretagna (ma fino a quando con l'aria che tira?) dove sperano di costruirsi un futuro migliore. I numeri dicono che i nuovi emigranti sono sempre di più, sempre più giovani e freschi di studio. A muoverli in gran parte non è una libera scelta, ma una necessità per la mancanza in patria di lavoro e prospettive. Il boom di migrazioni rappresenta un segno di impoverimento poiché non di rado chi parte non torna reinvestendo altrove competenze e risorse di qualità di cui il Paese avrebbe invece bisogno. Sebbene le motivazioni siano diverse rispetto al passato, urge a questo punto un intervento della politica per invertire quella che appare come una vera e propria fuga di cervelli non priva di rischi.

 

NOSTALGIA. Che rimpatriata per chi era giovane idealista negli anni sessanta e in fondo al cuore lo è rimasto. C'era tutto il mito della Abbey Road, la strada di Londra immortalata dai Beatles, sul palco del festival di Indio dove Paul McCartney ha dato libero sfogo ai ricordi di un'epoca in cui la musica cambiò per sempre. All'appuntamento con le leggende del rock nella località californiana, appuntamento posto all'insegna della nostalgia, sono tornate a rivivere le speranze e le illusioni di una intera generazione che identificandosi nei brani dei "Fab Four" voleva cambiare il mondo oltre alla musica, per crearne uno migliore. Sentimenti che sono venuti a galla nel ricordo di chi non c'è più. Del gruppo di Liverpool sono rimasti Ringo Starr e Sir Paul che ha reso omaggio a John Lennon e alla sua Imagine, la canzone pacifista pensata per un mondo senza frontiere e senza muri che anche 45 anni dopo, a maggior ragione, nulla ha perso della sua straordinaria potenza evocativa.

    

    

L'AVVENIRE DEI LAVORATORI - Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L'Avvenire_dei_lavoratori

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Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

FRENETICO IMMOBILISMO

 

La Camera ha approvato la risoluzione di maggioranza sulle comunicazioni del premier in vista del prossimo consiglio europeo del 20 e 21 ottobre. I voti a favore sono stati 301, 173 i contrari. Siano in una Europa caratterizzata da “un frenetico immobilismo” quella in cui l’Italia si batte per affermare un diverso paradigma, dal punto di vista economico, politico, ma anche ideale. Matteo Renzi lo ha detto durante il suo intervento alla Camera dei Deputati per illustrare la linea dell’Italia al Consiglio Europeo in programma il prossimo 20-21 ottobre. Un tratto distintivo tanto più grave in quanto si pone in contrasto con i rapidi mutamenti del quadro internazionale, ha spiegato ancora Renzi: “Dopo una serie di appuntamenti preparatori, avevamo immaginato di arrivare a Bratislava con un significativo programma di riforme”. E invece, sottolinea il presidente del Consiglio, nessuno immaginava che “questo frenetico immobilismo portasse a poco più che al niente, un documento banale, una somma di riassunti, un elenco di buone promesse assolutamente non all’altezza lanciata dalla Brexit”. Per fronteggiare questo immobilismo, occorre quindi immaginare un percorso inedito: l’unico punto positivo di questi mesi è aver fissato l’appuntamento del 25 marzo 2017 a Roma, 60 anni dopo la firma costitutiva i 27 paesi Ue si riuniranno nella città eterna e proveranno a immaginare il futuro.

    “Il prossimo vertice europeo – ha detto ancor Renzi – arriva in un momento in cui l’Europa ha subito un duro shock con la Brexit” e “con un quadro di incertezze sul futuro”. “La Ue si accinge a discutere il prossimo bilancio, nei prossimi mesi si tornerà a discutere la divisione del bilancio Ue. E’ fondamentale che l’Italia sia promotrice di una posizione durissima nei confronti dei paesi Ue che hanno ricevuto molti denari dalla comune appartenenza e in questa fase si stanno smarcando dai propri impegni sulla ricollocazione degli immigrati”. L’Italia oggi ha un “atteggiamento di stimolo, un’ingombrante presenza nella discussione” dell’Unione europea. E parlando di numeri e del patto di stabilità ha detto che “l’Italia ha oggi la rotta di discesa del deficit più significativa, rispetto ad altri Paesi citati come punto di riferimento, l’Italia ha un deficit alla metà: noi il 2,4% altri il 5,1% di deficit. E ogni riferimento alla Spagna è puramente voluto”.

    Per i socalisti è interventuta in discussione generale Pia Locatelli, presidente del gruppo del Psi. “Dei tanti temi sul tavolo del prossimo Consiglio europeo – ha detto -. mi soffermo ancora una volta su quello che secondo noi socialisti è il più critico e sul quale si gioca il futuro dell’Europa. Parlo della gestione dei flussi migratori che vede l’Europa divisa tra chi coltiva odi e paure e coloro che cercano di governare il fenomeno con politiche comuni improntate in primis al rispetto dei diritti umani, dello spirito di solidarietà e accoglienza che da sempre ci caratterizza”.

    I socialisti hanno votato a favore della risoluzione di maggioranza. Pia Locatelli nella dichiarazione di voto si è detta preoccupata sull’evoluzione del Migration Compact. “Un contributo di idee, il progetto che abbiamo messo a disposizione della UE, che propone aiuti allo sviluppo per sradicare le cause all’origine dell’immigrazione coinvolgendo tutta la UE in un’azione comune verso l’Africa soprattutto, un tentativo di gestire i fenomeni migratori anche contenendoli ma rimanendo coerenti con l’Europa delle origini”. “La proposta italiana però – ha sottolineato – è uscita notevolmente modificata dal passaggio europeo con il rischio che a imporsi sarà di nuovo quella che da qualcuno è stata definita la logica poliziesca turca”. Per Pia Locatelli il rischio da evidenziare “è quello di sostenere politiche repressive anziché politiche di investimento”.

 

Vai al sito dell’avantionline

       

               

LETTERA da Montecitorio

 

Laura Garavini (PD) - Al dibattito TV

con il Ministro della difesa austriaco

 

Non si può trattare l’Europa come se fosse una mucca dalla quale attingere solo nei momenti di bisogno. Serve solidarietà e là dove questa non funzioni, servono sanzioni.

 

Una decina di giorni fa sono stata ospite del programma della TV pubblica austriaca ORF, “Im Zentrum” (una sorta di “Porta a porta” austriaca). Ho parlato delle migrazioni in Europa illustrando la proposta italiana del Migration Compact. Ne ho discusso fra gli altri con il Ministro della difesa austriaco e con il leader dell’opposizione della destra slovacca.

    Il Governo Renzi in Europa preme per un cambio di passo sul fronte delle politiche migratorie. Non è accettabile che molti Paesi membri dell’Unione europea, primi fra tutti quelli dell’Est, si tirino indietro quando si tratta di gestire in modo congiunto i flussi migratori, mentre sono i primi ad aver approfittato dei fondi europei per ricostruire le loro economie dopo il crollo del comunismo.

    Non si può trattare l’Europa come se fosse una mucca dalla quale attingere solo nei momenti di bisogno. Serve solidarietà e là dove questa non funzioni, servono sanzioni.

 

Laura Garavini, deputata del PD

eletta nella Circoscrizione Estero

        

        

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FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

“Pietro Nenni padre della Repubblica”

 

Giornata al Senato per Pietro Nenni alla Biblioteca del Senato,

sala degli Atti parlamentari, martedì 18/10/2016

 

Vi aspettiamo il 18 ottobre p.v. presso la Biblioteca del Senato.

Ci saranno due manifestazioni.

 

La mattina, alle ore 11, sarà inaugurata la mostra con gli interventi di: Carmelo Barbagallo, Giorgio Benvenuto, Stefano Collina, Valeria Fedeli, Cesare Salvi, Maria Vittoria Tomassi.

 

Il pomeriggio, alle ore 17, in occasione della donazione all’Archivio storico del Senato dei diari di Nenni, sarà presentato il libro

 

Socialista libertario giacobino. Diari (1973-1979)

 

a cura di Paolo Franchi e Maria Vittoria Tomassi

 

Interverranno: Giorgio Benvenuto, Rino Formica, Paolo Franchi, Miguel Gotor, Flavia Piccoli Nardelli. Modererà Marco Da Milano.

 

Sarà presente il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

 

La mostra sarà aperta dal 18 ottobre al 17 novembre 2016.

 

Ricordiamo che, per ragioni di sicurezza, è necessario segnalare entro venerdì 14 ottobre la propria partecipazione al numero 06/8077486 o alla e-mail info at fondazionenenni.it, precisando se si sarà presenti ad entrambe le manifestazioni o ad una di esse. Ricordiamo anche che è necessario avere un documento di riconoscimento ed è obbligatorio per gli uomini indossare giacca e cravatta.

 

(Vai al sito della Fondazione Nenni)

       

   

Cultura

 

Poco adagio. Cantabile.

 

Il “Lied der Deutschen” di Haydn, l’inno che

ha accompagnato un secolo di storia tedesca

 

di Marco Morosini

 

Vi prego, ascoltate questa musica. Il Poco adagio. Cantabile del “Kaiswerquartett” opera 76 di Haydn mi ha svegliato dalla radio tedesca all’alba del 3 ottobre, “Giorno dell’unità tedesca”. E’ una delle melodie più soavi che conosca. Come ha potuto celebrare anche i trionfi della Germania nazista? Questa musica infatti è quella dell’inno nazionale tedesco, ininterrottamente dal 1922.

    «Questa lirica – ne scrisse Jost Hermand nel 1979 – ha non solo un’intenzione ma anche una ricezione. E questa è chiaramente negativa. Dal 1914 è stata talmente caricata e esaltata con significati sbagliati che le sue origini sono diventate sempre meno importanti». Il germanista si riferiva probabilmente alle parole. E le note? Si può argomentare verbalmente contro le parole. Ma si può argomentare musicalmente contro le note: o meglio contro la loro percezione storicizzata? Lo fece Karlheinz Stockhausen con la composizione Hymnen del 1966-1967: storpiò la melodia come in un disco che balbetta. Eppure neanche un tale sfregio mi distoglie dal continuare a riascoltare – qui a Vienna a pochi passi da dove furono composte 220 anni fa – queste note rasserenanti. Può una musica implicare una percezione dell’assoluto? Può presupporre un’ispirazione ultra-umana come sembra che pensasse Pitagora e come pensa chi dà una risposta metafisica all’eterna domanda: Perché la musica è così bella? (“Warum denn ist Musik so schön?”)?

    La melodia del “Poco adagio. Cantabile” di Haydn proviene da una canzona croata. Echeggiò già in Telemann e Mozart. Haydn l’amò tanto da suonarla ogni giorno al pianoforte. La usò in un’opera, una messa, un concerto, e nel 1797 per il Kaiserlied, un regalo di compleanno all’Imperatore. Mentre in Austria fu inno imperiale, in Germania “La canzone dei tedeschi” (Nota bene: 'dei tedeschi', non 'della Germania'“) fu canto popolare. Musicò più di sessanta testi diversi. Forse solo la melodia de “La paloma” vanta un così grande numero di adattamenti a testi così diversi e spesso antitetici. La melodia di Haydn divenne infine famosissima da quando musicò “Das Lied der Deutschen”. Il suo primo verso recita “Deutschland, Deut­schland über alles” (“Germania, Germania, sopra tutto”). August Heinrich Hoffmann von Fallerleben, germanista, patriota e autore di canzoni popolari, la concepì come canto patriottico di libagione (un Trinklied) evocando nella seconda strofa anche le donne, il vino e il cantare dei tedeschi. Insomma in Europa queste note dilagarono prima del ‘900 quasi nell’aria. Ma negli anni ’40 dilagarono nel solco dei carri armati e delle bombe del Terzo Reich. Le ascolto e riascolto in questi giorni. Mi chiedo come ciò fu possibile.

    Nel 1922 le tre le strofe divennero inno nazionale tedesco proclamato dal presidente della Repubblica di Weimar, il socialdemocratico Friedrich Ebert. Fu un gesto di omaggio alla Germania popolare, come lo fu l’adozione della bandiera repubblicana giallo-rosso-nera dei liberali rivoluzionari del 1848. In effetti, nel 1841 la prima strofa di Hoffmann “Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt” (“Germania, Germania sopra a tutto, sopra a tutto nel mondo”) esprimeva un anelito risorgimentale prerivoluzionario teso all’unificazione dei popoli di lingua tedesca, allora divisi in una quarantina di principati. Quell’über alles non era un “sopra a tutti” ma un “soprattutto”: i patrioti unifichino la Germania. Il regime nazista adottò come inno nazionale solo la prima strofa, sempre seguita dall’inno del partito nazista, dandole un significato d’istigazione a dominare il mondo, che non aveva. La Germania del dopoguerra, invece, adottò come inno nazionale solo la terza strofa “Einigkeit und Recht und Freiheit für das deutsche Vaterland!” (“Unità, diritto e libertà, per la patria tedesca!”). Il “nuovo vecchio inno” fu ri-adottato due altre volte, nel 1952 e nel 1990, alla riunificazione della Germania, dopo dibattiti nazionali ai quali parteciparono con carteggi ufficiali Cancellieri e Presidenti quali Heuss e Adenauer nel 1950 e von Weiszaecker e Kohl nel 1990.

    Eppure occorre sapere tutto questo? In una mattina viennese di primo autunno quelle note sublimi non riuscivano a uscirmi dalle orecchie. “Poco Adagio. Cantabile”, una melodia-teflon cui niente può restare attaccato? Un prêt-à-porter per tutte le stagioni? La sua fortuna intangibile dipende dalla forza della musica o dalla debolezza degli uomini? Cerco ancora una risposta.

 

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Sitografia : Su Wikipedia > Lied der Deutschen ; Haydn, Kaiserquartett > Tatrai quartet ; da “Die Zeit” > Ein Lied für alle Fälle 1 e Ein Lied für alle Fälle 2 ; Die Geschichte einer Hymne > Documentario TV

   

        

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