Torino. Alpino impacchettato e corteo migrante



Torino. Alpino impacchettato e corteo migrante

Torino, Primo Marzo. Un enorme telo di plastica nera ha impacchettato il
Totem all’Alpino. Sul tronco che ne regge il testone è stato piazzato un
grosso cartello con la scritta “via gli alpini dalla città”.

Qui trovi qualche foto del corteo
http://www.flickr.com/photos/58952321@N07/sets/72157626182466280/show/with/5491736357

Non poteva che iniziare così la giornata di lotta migrante a Torino. Gli
alpini sono nelle nostre strade e nel centro di corso Brunelleschi da
ormai due anni. Sono gli stessi che ammazzano in Afganistan. Sei mesi là e
sei mesi qua. A fare la guerra ai poveri.
Poi si parte. Italiani e immigrati insieme per una giornata che riprende
il filo rosso delle lotte dell’autunno contro la sanatoria truffa, per i
documenti, contro la schiavitù del lavoro, per la chiusura dei CIE.
Sullo sfondo l’eco delle rivolte in Nordafrica, l’orgoglio dei maghrebini
che si sono ripresi un pezzo di libertà, uno scampolo di futuro.
Una rivolta che sta contagiando i CIE di tutta Italia, cominciando da
quello di Gradisca, che gli immigrati l’hanno demolito, stanza dopo
stanza. E che è arrivata anche a Torino, dove la sera prima era andata a
fuoco la sezione gialla.
In testa al corteo sul camion di apertura uno striscione rosso con la
scritta “Noureddine, omicidio di Stato”. Il corteo è dedicato
all’ambulante di Palermo, morto dopo una lunga agonia. Aveva le carte a
posto e sperava che presto sua moglie e la sua bambina potessero venire in
Italia.
Di questo sogno banale ed umano non resta più nulla. Noureddine è morto.
Per una settimana, giorno dopo giorno, aveva subito i controlli dei
vigili, impegnati a far rispettare i regolamenti “sul decoro urbano”. Non
ne poteva più. Ha preso una tanica, si è cosparso di benzina e l’ha
accesa.
Noureddine è stato ammazzato. Ammazzato dalle leggi di uno Stato che nega
un futuro a chi arriva nel nostro paese sperando in una vita migliore. Ma
qui trova solo sfruttamento bestiale, discriminazione, razzismo.
Anche a Torino per poco non ci è scappato il morto. In mattinata un
immigrato cui era stato negato il permesso di soggiorno, si è dato fuoco
nel cortile dell’Ufficio della Questura di corso Verona. Le fiamme che lo
hanno avvolto sono state subito spente e lui se la caverà. Non si spegne
invece la rabbia per i tanti morti da cui è segnata la pur breve storia
dell’immigrazione nel nostro paese.

Il corteo percorre le strade di S. Salvario per poi dirigersi verso il
centro. La gente si avvicina, prende i volantini, fa domande. Musica e
interventi si alternano dai vari impianti.
In via Po compare una scritta sulla filiale dell’Unicredit “Questa banca
arma Gheddafi”. Il faccione del dittatore libico è anche in testa al
corteo, armato di una falce insanguinata “made in Italy”.
Si finisce in piazza Castello con gli immigrati che spingono sino al
Palazzo della Regione, dove si sosta a lungo, fronteggiando quelli
dell’antisommossa, mentre la piazza si riempie di musica, parole, slogan.
Per un momento è quasi una festa. Ma la strada, lo sappiamo, è ancora
tutta in salita. La scommessa di uno sciopero dei lavoratori immigrati e
italiani resta ancora sullo sfondo. Tutta da costruire. Eppure necessaria.
Perché la schiavitù del lavoro migrante è lo snodo cruciale per smontare
il meccanismo perverso della guerra tra poveri, perché – non ci
stancheremo di ripeterlo – i lavoratori, uniti, possono fare male ai
padroni, molto male.

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