Torino processo agli antifascisti. Una democratica barbarie



Torino processo agli antifascisti. Una democratica barbarie

 

5 anni e 5 mesi. Questa la richiesta formulata il 30 ottobre dal PM Tatangelo al processo che vede alla sbarra 10 antifascisti torinesi.

Facciamo un passo indietro.

Era la notte tra il 10 e l’11 giugno del 2005.

Al Barocchio, una casa occupata alla periferia della città, una squadraccia fascista entra di soppiatto nel cortile e ferisce a coltellate due compagni svegliati dal rumore. Uno di loro, l’intestino trapassato da un fendente, verrà operato d’urgenza: per poco non ci scappa il morto.

La settimana successiva l’appuntamento è in piazza Madama Cristina per una manifestazione antifascista. Il corteo attraversa il quartiere S. Salvario e poi si dirige in centro. In via Po viene caricato dalla polizia per impedirgli di proseguire verso piazza Castello, il salotto buono della città, dove lo shopping del sabato pomeriggio non deve essere turbato da un corteo che racconta storie di aggressioni fasciste e del silenzio complice di politici e media.

La polizia attacca il corteo, spara lacrimogeni seminando il panico tra i passanti. Il corteo è disperso: alcuni manifestanti per frenare la furia della polizia erigono una piccola barricata. Un quarto d’ora dopo è tutto finito. Due manifestanti, che si erano fermati ad aiutarne altri due travolti dalla carica vengono tratti in arresto e passeranno due settimane in galera.

Un mese dopo, è il 20 luglio, nel quarto anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani, parte una raffica di arresti. 10 antifascisti vengono accusati di devastazione e saccheggio. Nello stesso procedimento vengono accusati di resistenza e lesioni 10 antirazzisti che il 19 maggio di quello stesso anno avevano manifestato in solidarietà con gli immigrati in rivolta all’interno del Cpt.

Gli antifascisti trascorreranno 6 mesi tra carcere e domiciliari.

L’accusa loro rivolta “devastazione e saccheggio” vale da 8 a 15 anni di reclusione. Un reato intrinsecamente collettivo, un reato che aggira le responsabilità specifiche dei singoli, per configurarsi, sia pure in modo anomalo, come reato associativo, là dove l’associazione è data dal comune intento di turbare violentemente l’ordine pubblico.

La requisitoria del PM Tatangelo, durata oltre cinque ore, si è dipanata ossessivamente intorno alla tesi che una vetrina rotta, qualche tavolino e sedia danneggiati durante la carica possano costituire “devastazione e saccheggio”.

Il teorema Tatangelo è semplice ed agghiacciante.

I danni sono stati pochi? Non ha nessuna importanza: l’articolo 419 “devastazione e saccheggio”, secondo l’interpretazione suggerita dal PM, che si è appoggiato in tal senso su una sentenza della Cassazione, si applica ogni volta la condotta incriminata abbia la finalità esplicita di turbare l’ordine pubblico. Qualsiasi turbativa dell’ordine pubblico è quindi da considerarsi “devastazione e saccheggio”? No. Tatangelo, magnanime, nega. La condizione indicata dal PM è che si susciti paura ed insicurezza tra i cittadini. In particolare se ci si trova nel centro buono della città di sabato pomeriggio. I fatti avvenuti durante la manifestazione al Cpt (buco nel muro di cinta e sassaiola) si configurano come meri reati di resistenza e danneggiamento perché la gente era lontana. Invece, nel caso del corteo antifascista, si era in mezzo alla gente.

Capolavoro di equilibrismo l’intera requisitoria non mancherebbe di lati comici se non ne andasse della libertà di 10 persone.

Si deve desumere che non sia lecito manifestare in centro perché altrimenti si rischia di turbare l’ordine pubblico? Il nostro PM si guarda bene dal fare una simile affermazione e si limita ad prodursi in un cortocircuito logico.

Premette che probabilmente se la polizia non avesse caricato per impedire l’attraversamento di piazza Castello la giornata si sarebbe conclusa senza incidenti. Parrebbe un’ammissione che la carica è stata la vera causa del breve scontro del 18 giugno 2005, ma ovviamente ci troviamo di fronte ad una figura retorica. La polizia – sostiene Tatangelo – non poteva non caricare un corteo di violenti, non poteva correre il rischio che i violenti arrivassero in centro. Sebbene sino a quel momento non fosse accaduto nulla era chiaro che lo scopo della manifestazione era arrivare nel cuore della città per dare vita a scontri e violenze. Tatangelo non nega che il corteo avesse finalità comunicative, ma sostiene che gli antifascisti per conquistarsi la visibilità che desideravano abbiano esplicitamente provocato disordini. Gli antifascisti miravano allo scontro spettacolare e volevano che avesse la cornice accattivante dell’affollato centro cittadino: la polizia non poteva che impedirlo. Come dimostra la sua tesi il PM? Con arroganza e fantasia.

La sola presenza di un gruppo di compagni in testa al corteo con bastoni e facce coperte è la dimostrazione che scopo della manifestazione era la violenza di piazza. Che i volti fossero coperti per impedire ai fascisti l’identificazione e che i bastoni fossero un deterrente contro possibili attacchi squadristi è considerato un pretesto per nascondere le vere intenzioni. Il fatto che appena una settimana prima i fascisti avessero colpito per uccidere non ha rilevanza per Tatangelo.

E se i manifestanti i bastoni non li hanno? Niente paura: ci pensa la polizia a metterglieli in mano, come accaduto a Massimiliano e Silvio, accusati di aver attaccato la polizia rispettivamente brandendo rispettivamente un tubo di ferro e utilizzando un giunto metallico. Loro negano ma che vale la loro parola di fronte alle accuse di onesti poliziotti? A che servono le foto che mostrano Massimiliano con una bandiera rossa e nera sostenuta da un’asticella di plastica? A che serve che la perizia sul tubo abbia evidenziato che era privo di impronte, come se fosse stato ripulito da chi l’aveva in custodia? Nulla - sostiene Tatangelo – i poliziotti non avevano nessun motivo per incastrare due persone che non conoscevano. Mai e poi mai la polizia potrebbe mentire per fregare due anarchici! Chi lo dice incorre nel reato di calunnia. Tatangelo annuncia che chiederà gli atti per procedere nei confronti di Massimiliano e di Agnese, la compagna che aveva testimoniato a suo favore, raccontando come fosse stata travolta dalla carica e Massimiliano si fosse fermato ad aiutarla. Durante il dibattimento Agnese e Massimiliano avevano dichiarato esplicitamente che la polizia mentiva e vanno puniti. La polizia, dice Tatangelo, non mente mai: al più può sbagliarsi perché osserva da angolature diverse. In tal modo si spiegano le diverse versioni date dai testimoni della digos e dell’antisommossa relative alla posizione del compagno Tobia, indicato dal PM come sobillatore intransigente che avrebbe guidato gli altri alla devastazione. Naturalmente nessuno deve permettersi di sospettare che Tatangelo abbia motivi di personale risentimento nei confronti dell’anarchico che, nel suo “Le scarpe dei suicidi”, ha denunciato il ruolo di Tatangelo nella grave montatura contro gli anarchici Sole e Edoardo, morti suicidi in prigionia.

In sostanza la tesi è tanto banale quanto spaventosa. I manifestanti, non tutti per carità, sono dei violenti, e siccome sono violenti per loro c’è un solo modo di “comunicare”: la violenza. Un bel sillogismo, non c’è che dire. Peccato che se non si dimostra la premessa risulta difficile desumerne la conseguenza, ed in questo caso l’unica vera “dimostrazione” sta nel profilo politico degli imputati, quasi tutti ben noti alla polizia per essere anarchici o antagonisti. Per Tatangelo non ci sono dubbi che il corteo del 18 giugno 2005 mirasse esclusivamente a provocare scontri e violenze nel centro cittadino. Il suo è un processo basato sulle intenzioni. Tatangelo scambia l’effetto con la causa, invertendo l’onere della prova. La polizia carica per impedire l’accesso a piazza Castello? La colpa è dei manifestanti che sono (per natura?) violenti e quindi non vanno fatti passare. Che siano violenti lo si deduce dal fatto che pretendevano di andare avanti, pretendevano di esercitare la loro libertà di manifestare anche in centro. Il fatto che gli incidenti in via Po siano stati la conseguenza e non la causa della carica viene ignorato perché irrilevante. Tatangelo insinua che se non fossero stati fermati gli antifascisti avrebbero presto fatto ben di peggio. Fantastico!

 

In questo modo si hanno le due condizioni fondamentali per l’applicazione del reato di “devastazione e saccheggio” ossia la “molteplicità degli agenti”, una moltitudine di persone determinate in tal senso, al di là della concreta condotta individuale, e la grave turbativa dell’ordine pubblico, data dalla presenza di centinaia di cittadini nel centro di Torino. Per questo il PM, pur chiedendo il minimo con l’applicazione delle attenuanti, pretende che gli imputati siano condannati. Chiede il minimo perché è consapevole che nella “sensibilità comune” una pena che va da 8 a 15 anni potrebbe parere eccessiva. Ma tant’è. Così ha stabilito il legislatore. Dura lex sed lex.

Il “minimo” sono 5 anni e cinque mesi per 9 imputati, che diventano 5 anni e 7 mesi per Fabio, reo di aver partecipato anche alla manifestazione davanti al cpt. A questi si aggiungono le pene per i due del cpt che non avevano scelto il rito abbreviato: da un minimo di un anno e 4 mesi a un massimo di due anni e 2 mesi.

 

Il 20 novembre si prosegue con le arringhe dei difensori. Poi dovrebbe essere emessa la sentenza.

 

Sin qui la cronaca ragionata dell’udienza del 30 ottobre.

Sappiamo tuttavia che le aule di “giustizia” sono solo i luoghi dove lo Stato regola i conti con i suoi oppositori e che l’andamento dei processi è lo specchio delle strategie repressive che chi detiene il monopolio della forza – e del “diritto” – pretende di imporre.

Qualunque sia l’esito del processo contro gli antifascisti torinesi ci pare chiaro che in questo paese ci troviamo di fronte ad una torsione degli stessi principi formali del diritto liberale che segnala una volontà di criminalizzazione dell’opposizione politica e sociale di segno molto ampio.

L’articolo 419 del codice penale è uno dei tanti strumenti a disposizione dei pubblici ministeri per colpire chi per scelta o per condizione è nemico dell’ordine costituito. Un ordine che si basa sull’ingiustizia, su una terrificante disparità nella distribuzione delle risorse, sulla limitazione della libertà di scegliere in autonomia il proprio percorso di vita, sulla negazione di ogni prospettiva di reale partecipazione di tutti alla vita collettiva. La democrazia non è che il feticcio usato per creare l’illusione della libertà, dell’equità, della giustizia.

Quanto più lo stato si sente forte, tanto più dismette la maschera liberale per assumere una più robusta attitudine disciplinare.

In questa chiave si leggono molte delle vicende degli ultimi anni.

Sta arrivando al suo epilogo il processo di Genova, dove, a 6 anni dalle giornate contro il G8, il PM del processo contro i “Black Bloc” invoca pene esemplari, arrivando a chiedere da 6 a 16 anni per i 25 manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio”.

Nei confronti dei tanti che l’8 dicembre del 2005 parteciparono alla liberazione di Venaus dalle truppe di occupazione, l’inchiesta, non ancora conclusa è per il reato di “devastazione e saccheggio”.

È cominciato a Milano il processo di secondo grado contro gli antifascisti che l’11 marzo del 2006 scesero in piazza contro Forza Nuova: in primo grado con rito abbreviato vennero condannati a 4 anni per “devastazione e saccheggio”.

A Genova, a Milano, a Torino la prova della “devastazione e saccheggio” consiste nella presenza alle manifestazioni. Non c'è uno straccio di prova a carico dei compagni. Ma che importa? A sentire i PM, basterebbe l'indimostrabile “intenzione”.

 

Questo delirio giuridico serve ad attaccare la libertà di partecipare attivamente alle lotte esprimendo le proprie idee.

Il reato per il quale sono perseguiti i 10 di Torino, i 18 di Milano e i 25 di Genova, e per il quale rischiano lunghi anni di detenzione, è, intrinsecamente, un reato di natura collettiva, poiché prescinde dalle responsabilità individuali. L'accusa di "devastazione e saccheggio" palesa la chiara volontà di criminalizzare le manifestazioni di piazza.

 

Sullo sfondo le nuove misure repressive contemplate nel pacchetto Amato Mastella. nel cui mirino sono immigrati, lavavetri, posteggiatori, venditori senza licenza.

Mentre gli assassini in divisa, mercenari ben pagati, in nostro nome portano le bombe, le torture, la ferocia democratica in Afganistan, la banda Prodi mette in atto misure repressive che colpiscono i poveri, i senza casa, i senza lavoro, i senza permesso. E se non basterà… si troveranno sempre truppe di complemento volontarie, pronte a colpire anarchici e case occupate, ad assalire le baracche dei rom, a dar fuoco ai barboni sotto un ponte… E per chi non ci sta ecco pronta l’accusa di devastazione e saccheggio.

 

Il momento è difficile. Occorre mettere insieme tutte le forze disponibili per fare barriera contro la barbarie che avanza. Una barbarie che di volta in volta assume le vesti dei fascisti che accoltellano e bruciano campi rom, dei poliziotti che uccidono torturano i manifestanti cantando “faccetta nera”, dei pubblici ministeri che cercano di seppellire sotto anni di galera chi si oppone al disordine statale e capitalista.

 

Occorre rompere il muro del silenzio!

A Genova come a Torino. Fermiamoli!

 

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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