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SMENTITO
Postato il Sunday, 11 May @ 15:00:00 CEST di http://www.articolo21liberidi.org

 Nell'apparizione al Palazzo di Giustizia di Milano,
il Cavaliere continua a recitare la parte del salvatore della patria su
gentile richiesta dell'amico Bettino Craxi

Il processo che vede Berlusconi imputato per corruzione

di Marco Travaglio

Il processo Sme-Ariosto somiglia molto a quello sul lodo Mondadori. Con una
fondamentale differenza: che qui Silvio Berlusconi non l'ha fatta franca
per prescrizione, ma è ancora imputato, per corruzione in atti giudiziari,
insieme ai suoi presunti complici: i giudici Squillante e Verde (assolto
per l'Imi-Sir) e gli avvocati Previti e Pacifico. La prima parte delle
accuse, quelle sul caso Sme, non vengono da Stefania Ariosto, che mai ha
parlato di quell'affare. (segue)



Il pool di Milano ci è arrivato da solo, scandagliando i conti bancari del
finanziere pluriinquisito Franco Ambrosio. Da questi, i magistrati sono
risaliti ai depositi di un imprenditore in affari con lui, il vecchio
Pietro Barilla. Il re della pasta aveva un conto a Zurigo che utilizzava
per foraggiare la Dc e il Psi a suon di mazzette.

Da quel conto, il 2 maggio e il 26 luglio 1988, partono due misteriosi e
sostanziosi bonifici: 800 milioni e un miliardo diretti ai conti
dell'avvocato romano Attilio Pacifico, braccio destro di Cesare Previti.
Questi versa poi una parte di quelle somme su altri tre conti: 200 milioni
al giudice Filippo Verde, 850 a Previti e 100 a Renato Squillante. Perché?

Convocato dal pool, Guido Barilla, figlio del defunto Pietro, non sa
spiegare perché mai suo padre avesse versato tutto quel denaro a un
avvocato che non aveva mai lavorato per lui.
Ma agli inquirenti milanesi basta un'occhiata al calendario per farsi
un'idea: le date dei versamenti coincidono con quelle delle tappe decisive
dell'infuocata battaglia giudiziaria intorno alla Sme. Eccola, in sintesi,
secondo la ricostruzione della procura di Milano, già confermata
dall'ordinanza di rinvio a giudizio firmata nel 1999 dal gup Alessandro
Rossato.

Nel 1985 Carlo De Benedetti, già impegnato nel settore dell'industria
alimentare come titolare della Buitoni, si propone di rilevare dall'Iri il
colosso alimentare pubblico Sme (la finanziaria delle partecipazioni
statali che controlla anche Motta, Alemagna, Cirio e De Rica), che il
gruppo pubblico presieduto da Romano Prodi ha deciso di privatizzare.
Quella dell'Ingegnere è l'unica offerta sul tappeto, per cui il 29 aprile
1985 la Buitoni e l'Iri stipulano un contratto che prevede la cessione alla
prima della maggioranza azionaria della Sme e della Sidalm, un'azienda
fortemente indebitata. Il pacchetto, pari al 54,3 per cento, viene valutato
da due esperti di assoluto prestigio come i professori Guatri e Poli, 500
miliardi. E De Benedetti offre 500 miliardi all'Iri. Il contratto viene
approvato dal cda dell'Iri all'unanimità.

Ma il 27 maggio '85 il ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida,
democristiano, ordina all'Iri di «astenersi dal definire l'operazioneŠ in
attesa delle deliberazioni del Cipi». Cioè del comitato interministeriale
responsabile della materia. Proprio lo stesso giorno però il Cipi dà il via
libera all'operazione.
Nelle stesse ore si fa avanti un nuovo pretendente: un certo professor
Italo Scalera, commercialista, che dice di rappresentare un grosso gruppo
imprenditoriale che non vuole uscire allo scoperto. E offre il 10 per cento
in più della Buitoni. La vendita a De Benedetti si blocca, anche perché nei
giorni seguenti arrivano altre offerte ancora. Fra queste, quella formulata
da Pompeo Locatelli, un faccendiere vicinissimo al presidente del Consiglio
Bettino Craxi, in nome e per conto della cordata Iar, che raggruppa
Fininvest, Barilla e Ferrero e che si allea ben presto al Consorzio
cooperativo italiano.

L'Iri a questo punto si tira indietro e rimette tutto in discussione,
sostenendo che l'accordo del 29 aprile non era «perfetto».
Che cosa è accaduto? E che c'entra la Fininvest di Berlusconi - che si
occupa all'epoca di edilizia e di televisioni - con l'industria alimentare?
Il processo di Milano svelerà i retroscena. Craxi, che detesta De Benedetti
in quanto editore del gruppo Espresso-Repubblica, unici giornali di
opposizione indipendente al suo governo, decide di boicottare l'affare. E,
tramite Locatelli e l'architetto tangentaro Silvano Larini, incarica
Berlusconi di mettersi di traverso con una cordata alternativa. Il
Cavaliere ha appena incassato i due decreti ad personam firmati dall'amico
Bettino per neutralizzare l'intervento dei pretori e legalizzare le
trasmissioni illegali su scala nazionale delle sue tre reti tv. Per rendere
credibile il suo interesse all'affare, decide di consorziarsi con qualche
imprenditore del ramo. Ma la scadenza dei termini per la controfferta è
imminente.

Berlusconi - che vuole restare dietro le quinte - telefona a Previti.
Questi gli segnala un suo compagno di scuola, Italo Scalera. Il quale
comunica all'Iri il rilancio: 550 miliardi contro i 500 offerti
dall'Ingegnere. Solo dodici anni dopo, davanti al pool milanese, svelerà
l'identità del misterioso «imprenditore» che l'aveva incaricato: «Il noto
imprenditore di cui ho parlato era Silvio Berlusconi, il quale mi telefonò
per chiedermi di mandare all'Iri un'offerta a nome di operatori finanziari
che non dovevano essere indicati [Š] e mi disse che era interessato lui
personalmente all'acquisto di Sme insieme ad altri imprenditori».
Berlusconi ha qualche giorno di tempo per reclutare gli alleati giusti.
Invita a cena due degli inserzionisti pubblicitari piú affezionati delle
sue televisioni, Pietro Barilla e il re della cioccolata, il piemontese
Michele Ferrero. E li convince a costituirsi in una nuova società, la Iar
appunto. Che per la Sme offre il 20 per cento in più di De Benedetti e il
10 in più di Scalera (cioè dello stesso Berlusconi). La nuova proposta
viene ufficializzata nell'ultimo giorno utile: il 29 maggio, mentre quella
di Scalera viene ignorata, visto che il commercialista rifiuta di rivelare
i suoi mandanti.

La scena è questa: il ministro Darida si assenta dalla stanza dove sta per
avvenire la firma del contratto Prodi-De Benedetti per ricevere, al
telefono, l'improvviso rilancio: «Il 29 maggio - racconterà - alla
convocazione finale all'Iri, mi fu detto da Berlusconi (ma non posso
escludere di averne parlato anche con Previti) di soprassedere, perché era
stata presentata un'altra offerta». A quel punto Prodi riapre la
trattativa, anche perché - dichiarerà al pool nel 1993 - era subissato da
«pressioni da ambienti politici, economici e giudiziari».

Nel giro di due giorni, Berlusconi presenta due diverse offerte: la prima
ha il solo scopo di rimettere in discussione il patto Iri-Buitoni. La
seconda, a volto scoperto in società con Barilla e Ferrero, serve a
impedire che De Benedetti concluda l'affare. E alla fine la manovra di
disturbo avrà successo: la Sme resterà all'Iri per un'altra decina d'anni.
Con la collaborazione, secondo l'accusa, di alcuni giudici romani. Perché,
a quel punto, la battaglia fra Cavaliere e Ingegnere si trasferisce al
Tribunale di Roma.

De Benedetti chiede il sequestro delle azioni Sme, confidando che i giudici
dichiareranno valido il suo contratto d'acquisto con l'Iri. Ma il 25 giugno
il Tribunale di Roma (collegio presieduto da Carlo Guglielmo Izzo) respinge
la sua richiesta. Il 17 gennaio 1986 l'Iri si rimangia la delibera
pro-Buitoni e dichiara valida soltanto l'offerta Iar. Il resto lo fa
un'altra sezione civile del Tribunale romano (presidente Filippo Verde,
giudice a latere Paolo Zucchini), che il 19 luglio 1986 annulla l'affare.
Motivo: il protocollo Prodi-De Benedetti «non segnava il perfezionamento di
un contratto». La Cassazione conferma la decisione nel maggio 1988:
l'accordo Iri-Buitoni, senza il benestare di Darida, non era valido. Per il
duo Berlusconi-Craxi, missione compiuta.
Ora, risulta che Izzo, Verde e Zucchini fossero legati a vario titolo a
Previti e al suo giro. Izzo - secondo Stefania Ariosto - partecipò con
l'avvocato al famoso viaggio a Washington in onore di Craxi. Zucchini,
iscritto alla loggia massonica P2 insieme a Berlusconi eppure assurto negli
anni Ottanta alla presidenza del Tribunale dei ministri di Roma, è
descritto da diversi testimoni come un assiduo frequentatore delle feste in
casa Previti e del suo veliero, il «Barbarossa»; e dalle carte bancarie
risulta intestatario di un conto cifrato a Montecarlo, sul quale nel '93
sono pervenuti 200 milioni da un deposito svizzero del solito Pacifico
(denaro slegato comunque da quella sentenza: infatti, prima indagato a
Milano, Zucchini è stato poi archiviato).

Anche Verde è amico di Previti e Pacifico: tanto che quest'ultimo gli aveva
aperto un conto in Svizzera, il "Master", sul quale aveva versato come
entrèe 500 milioni e ogni tanto faceva cadere qualche sommetta. Ad esempio,
i 200 milioni versati proprio all'indomani della sentenza definitiva della
Cassazione sul caso Sme. Due mesi dopo, depositata la motivazione, Pacifico
versa anche 100 milioni a Squillante e 850 a Previti. Tutte coincidenze? I
protagonisti giurano di sì, e parlano di operazioni finanziarie,
investimenti, prestiti restituiti. L'accusa invece non ha dubbi: corruzione
in atti giudiziari, per compravendere la sentenza Sme che consentì a
Berlusconi di sconfiggere De Benedetti. Esattamente come avvenne nel 1991
con la sentenza che annullò il Mondadori.

Ora Berlusconi seguita a ripetere di aver «sventato la svendita della Sme»
che sarebbe stata architettata da Prodi e De Benedetti, e di avere quindi
«fatto risparmiare allo Stato italiano 2000 miliardi, visto che la Sme fu
poi rivenduta a 2500 miliardi.

Le cose sono andate ben diversamente.

1) Non è vero che l'offerta di De Benedetti fosse incongrua: oltre alle
perizie di Poli e Guatri, al voto unanime di Cda Iri e Cipi, parlano i
numeri del mercato: Buitoni s'impegnava a pagare 1.107 lire per ogni azione
Sme, a fronte di un valore di borsa che negli ultimi mesi era stato in
media di 801 lire.

2) Non è vero che Prodi abbia fatto tutto da solo, osteggiato da altri
consiglieri dell'Iri, come anche di recente ha ripetuto Ignazio La Russa,
accusando il tribunale di Milano di non voler ascoltare il professor Pietro
Armani, allora nel Cda dell'Iri in quota Psi, oggi parlamentare di An.
Armani votò a favore dell'intesa Iri-Buitoni, come risulta dal verbale del
Cda Iri del 7 maggio 1985: «Il Prof. Armani dichiara di esprimere voto
pienamente favorevole alla operazione per le ragioni illustrate dal Prof.
Prodi [Š]. L'aspetto positivo della operazione non va sottovalutato[Š]. In
ordine alla congruità del prezzo di cessione, il Prof. Armani dichiara di
rimettersi alle valutazioni effettuate dal Prof. Poli e dal Prof. Guatri,
di cui egli apprezza le doti di competenza e serietà, che trovano conferma
anche nell'accuratezza delle analisi e delle motivazioni che illustrano i
risultati peritali».

3) La proposta Buitoni fu poi superata da quelle venute dopo, quando già si
conoscevano i 500 miliardi offerti da De Benedetti. Prima 550 e poi 600
miliardi. L'ordine di grandezza restava analogo. A nessuno, men che meno a
Berlusconi, venne in mente di offrire 2500 miliardi, quale oggi lui dice
essere il valore reale dell'azienda.

4) La delibera dell'Iri e poi quella del Cipi imponevano, come condicio
sine qua non per la cessione di Sme e Sidalm, che il gruppo restasse in
mani italiane. Buitoni si impegnava in quel senso. La Iar non poteva farlo,
se non «per un periodo di almeno 10 anni», perché nella sua cordata c'erano
già aziende controllate da società straniere: Barilla per il 75 per cento
faceva capo a un socio estero e così la Ferrero.

5) La proposta Iar non prevedeva garanzie formali. Anzi, nel contratto fra
Iri e Buitoni quest'ultima si impegnava a fornire alla prima, per le rate
di pagamento, polizze fideiussorie di grandi banche o assicurazioni, senza
contare la manleva concessa all'Iri dai rischi che gli potevano derivare
dalle garanzie che aveva rilasciato nell'interesse di Sme e Sidalm.

6) Da dove ha tratto, Berlusconi, la cifra iperbolica di 2500 miliardi? Dal
totale delle somme incassate dall'Iri nel 1994, quando finalmente riuscì a
vendere la Sme. Ma quella cifra non è paragonabile ai 500 miliardi offerti
da De Benedetti (né ai 550 offerti da Berlusconi) dieci anni prima. Per
diversi motivi:
- Sono trascorsi, appunto, dieci anni, durante i quali l'inflazione ha
galoppato.
- Il valore della Sme è notevolmente cresciuto, grazie alle massicce
iniezioni di migliaia di miliardi da parte dell'Iri.
- Buitoni si sarebbe accollata, con quei 500 miliardi, anche gli enormi
debiti della Sidalm, che nel '94 era già stata scorporata.
- La vendita dell'85 riguardava il pacchetto di maggioranza dell'intero
gruppo Sme-Sidalm, mentre nel '94 la Sme fu venduta a pezzi, e a diversi
offerenti, italiani ma anche stranieri (espressamente vietati dieci anni
prima), il che ha consentito ovviamente di incassare ricavi superiori.

Il processo si chiama "Sme-Ariosto" perché riguarda anche le accuse della
teste Omega a Renato Squillante, considerato «a libro paga» del gruppo
Fininvest per ogni esigenza giudiziaria del gruppo. Il capo dei Gip romani,
in pratica, si sarebbe prestato sia per vendere le decisioni che
competevano al suo ufficio, sia per avvicinare colleghi e altri
protagonisti del palazzo di giustizia capitolino che di volta in volta si
occupavano di processi «interessanti» per Berlusconi e Previti.

Insieme con lui, è imputato anche l'ex pm Francesco Misiani, ma "soltanto"
per favoreggiamento: cioè per essersi procurato notizie riservate
sull'inchiesta milanese a carico dell'amico Renato, e per avergliele poi
passate in una celebre conversazione al bar Mandara.
Nel filone "Ariosto", è compresa quella che il pool di Milano considera la
«prova regina della corruzione del giudice da parte del gruppo Fininvest e
del rapporto diretto fra Berlusconi, Previti e Squillante: le carte
bancarie svizzere che dimostrano il passaggio di 434.404 dollari, pari a
circa mezzo miliardo di lire, dal conto Ferrido (All Iberian, cioè
Fininvest, cioè Berlusconi) al conto Mercier (Previti) al conto Rowena
(Squillante), il 6 marzo 1991.

Due bonifici diretti, della stessa identica cifra, nel giro di un'ora e
mezza. Per Previti, fu un errore della banca: lui quei soldi li mandò a
Pacifico, che poi per conto suo li dirottò a Squillante. Peccato che nelle
carte bancarie il nome e i conti di Pacifico, questa volta, non risultino
mai. E peccato che il direttore della banca abbia smentito Previti. Nel
dubbio che i giudici di Milano non credano all'imputato-deputato, meglio
fare una legge sull'immunità.