rassegna stampa - INDIA: Tra i suicidi nei campi del cotone



A cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Corriere.it" - 21/08/06
INDIA: Tra i suicidi nei campi del cotone
(di CECILIA ZECCHINELLI)

NEW DELHI - «Nel villaggio di Bheemavaram, Stato dell’Andhra Pradesh, il
contadino Chinta Venkateswara, 46 anni, s’è ucciso bevendo del pesticida per
i troppi debiti. È il terzo suicidio tra i coltivatori di cotone nella
stessa località, in soli due giorni». Notizie come queste sono ormai la
norma qui in India, non si stupisce più nessuno. «La sedicenne Vijay Chatale
è sotto choc per aver scoperto il padre, agricoltore del Kerala, morto per
impiccagione nella cucina di casa dopo il crollo dei prezzi agricoli
internazionali», si legge su un altro giornale. E ancora: «Nel paesino di
Nagpur, nello Stato del Maharashtra, la polizia ha fermato alcuni contadini
disperati che stavano preparando una pila funeraria su cui intendevano
immolarsi». E si potrebbe continuare a lungo.
Sui media indiani queste notizie sono infatti quotidiane: come gli
spostamenti dell’amato-odiato monsone lungo l’enorme subcontinente, i gossip
sugli attori miliardari di Bollywood, i lenti ma costanti successi delle
caste «inferiori» nello scardinare l’antica struttura sociale. Avvenimenti
ormai entrati nella routine di questo Paese.
Ma i suicidi di migliaia di contadini - l’attuale governo di New Delhi ne
ammette «quasi 10 mila» dal 1997, stime indipendenti ne quadruplicano almeno
la cifra - sono diventati un’enorme tragedia collettiva. Una piaga nemmeno
immaginabile finché l’agricoltura - da cui dipendono ancora i due terzi
della popolazione indiana, ovvero 750 milioni di persone - era gestita su
basi comunitarie o basata sui grandi latifondi e lo Stato sosteneva il
settore. Soprattutto fino a quando le multinazionali americane non hanno
iniziato a imporre i loro carissimi semi - in particolare per la
diffusissima coltivazione del cotone, per di più geneticamente modificato -
costringendo i contadini a ricomprarli ogni anno per mantenere gli standard
richiesti dal mercato internazionale nonostante il crollo dei prezzi della
materia prima.
Che l’«epidemia» di morti nelle campagne - quasi tutti uomini e in genere
piccoli e piccolissimi proprietari - sia un fenomeno nuovo è un fatto che
nemmeno il governo mette più in dubbio. Che le decine di migliaia di suicidi
siano causati dalla disperazione dovuta a debiti impossibili da ripagare,
nemmeno.
Piuttosto, è sui motivi a monte che il potere politico ha finora dato
spiegazioni «naturali» anziché politiche ed economiche. Colpa di inondazioni
e siccità, invasioni di insetti e parassiti delle colture, sostiene (con
sempre minor convinzione) New Delhi, dichiarandosi impotente e impegnandosi
al massimo a stanziare fondi per le regioni più in crisi, come ha fatto
recentemente il premier Manmohan Singh nel Maharashtra, con un programma da
800 milioni di euro.
Ma le catastrofi naturali sono flagelli antichi in India. Perché tutte
quelle morti, quasi all’improvviso? E soprattutto, come mettere loro fine?
Una risposta arriva da tempo dalle analisi dei combattivi ecologisti
indiani. Dalla famosissima scienziata-ambientalista Vandana Shiva, da
migliaia di organizzazioni e attivisti meno noti. «La Super India
Scintillante con una crescita annua dell’8%, magnificata da tutti per il
polo di Information technology a Bangalore, sede ambita dall’Occidente per
la delocalizzazione delle sue imprese, oggetto delle copertine dei magazine
di mezzo mondo, è solo una faccia della medaglia», dice Kishor Tiwari, che
dieci anni fa ha lasciato un ottimo impiego alla General Electric per
dedicarsi alla causa dei contadini del Vidarbha (nel Maharashtra), la
regione produttrice di cotone più colpita in assoluto.
L’altra faccia, dice Tiwari, mostra un’agricoltura ormai semidistrutta da 15
anni di riforme sconsiderate, dagli accordi tra New Delhi e Washington
ribaditi anche nel 2005, che concedono un quasi monopolio alle
multinazionali Usa nell’imporre i loro carissimi semi. E questo nell’
indifferenza dei governi federali e statali, sempre più proiettati a
lanciare l’India del hi-tech a scapito dell’agricoltura, da cui dipende
appunto il 75% della popolazione del Paese ma che contribuisce ormai solo
per il 25% al suo Pil.
Un’analisi soltanto in apparenza frutto di una visione anti-governo e
anti-globalizzazione. Infatti, anche il prestigioso e ben poco
rivoluzionario Tata Institute of Social Sciences di Mumbai, a cui si era
rivolto mesi fa il tribunale supremo della capitale finanziaria indiana per
capirne di più, si è trovato alla fine d’accordo. «I suicidi sono avvenuti a
partire dal 1997 nelle zone più ricche del Paese e sono l’indubbio sintomo
di una profonda crisi del settore agricolo - si legge nel rapporto del Tata
Institute -. Tra i motivi che abbiamo individuato c’è il crollo degli
investimenti pubblici nel settore, in linea con le direttive di Fondo
Monetario Internazionale e Banca Mondiale che hanno soprattutto costretto l’
India ad aprire le porte, dal 1998, a corporation come Monsanto, Cargill e
Sygentas i cui semi sono più cari e richiedono più fertilizzanti, pesticidi
e acqua. Fattori, questi, che diminuiscono la fertilità dei terreni,
aumentano i costi di produzione, mettono i contadini in balia degli usurai e
del mercato internazionale. Il tutto, mentre l’Organizzazione mondiale per
il commercio impone di togliere le tariffe all’import, e gli Stati Uniti
continuano a finanziare il loro export».
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