rassegna stampa: L'acqua: da bene commerciale a cosa pubbl ica



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Alternative", n° 1, 2006
L’acqua: da bene commerciale a cosa pubblica
di Patrizio Paolinelli

Intervista a Riccardo Petrella

Nel 2001 Riccardo Petrella dava alle stampe il Manifesto dell’acqua,
pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele. Un anno prima era nata l’
Associazione italiana per il Contratto Mondiale dell’acqua, mentre l’idea
originaria è stata presentata ufficialmente dallo stesso Petrella nel 1998 a
Lisbona, in occasione dell’Expo. Il principio-guida che ispira il Manifesto
è considerare l’acqua come un bene vitale appartenente all’umanità. Le
finalità più importanti segnalate nel documento sono due: 1) l’accesso all’
acqua è un diritto inalienabile di ogni individuo e di ogni comunità; 2) la
gestione dell’acqua  deve essere solidale, sostenibile e integrata.

La sintonia tra queste proposte e le istanze  che da oltre dieci anni
animano il movimento dei movimenti è pressoché completa. D’altra parte, per
il suo impegno sociale si può affermare che Petrella appartiene al
movimento. Docente di Economia Politica all’Università Cattolica di Lovanio
(Belgio) ha pubblicato numerosi lavori che teorizzano soluzioni alternative
alla globalizzazione capitalistica. Tra i tanti ricordiamo: Il bene comune.
Elogio della solidarietà, Diabasis (Reggio Emilia, 1997); Il diritto di
sognare. Le scelte economiche e politiche per una società giusta, Sperling &
Kupfer (Milano, 2005).
Oltre all’attività di ricerca Petrella ha messo in moto numerose iniziative
didattiche finalizzate a contrastare l’ideologia capitalistica e la pretesa
del pensiero unico di mercificare ogni cosa. A questo scopo nel 2003 ha
fondato l’Università del Bene Comune. Una struttura organizzata in quattro
Facoltà: Facoltà dell’Acqua, della Mondialità, dell’Alterità, dell’
Immaginazione. Ma non è solo l’insegnamento a caratterizzare oggi l’attività
di Petrella. Nel luglio del 2005 è stato nominato Presidente dell’acquedotto
pugliese. Si tratta di una novità politica importante: un esponente del
movimento è chiamato a gestire la rete idrica più estesa d’Europa (20mila
km). Lo ha voluto Nichi Vendola appena eletto Presidente della Regione
Puglia  in ottemperanza ad un suo preciso impegno in campagna elettorale:
riportate l’acquedotto nell’alveo di un servizio pubblico dopo la
privatizzazione imposta nel 1999 dal Governo D’Alema. L’impegno è stato
rispettato. Ora tocca a Petrella dare gambe alla decisione politica.

Il suo libro, il Manifesto dell’acqua, reca come sottotitolo: il diritto
alla vita per tutti. Cosa minaccia questo diritto?
Una serie di idee forti la cui matrice ideologica è chiaramente
capitalistica. La prima idea si struttura intorno al concetto che l’acqua
sia un bene economico e non un bene sociale. A sentire i dirigenti dei paesi
sviluppati tramite questa correzione si eliminano una serie di sprechi
prodotti dal fatto che il prezzo dell’acqua è mantenuto artificialmente
basso. La seconda idea riposa sul concetto di scarsità. Concetto tipico dell
’economia capitalistica. Il ragionamento è questo: complessivamente nel
mondo la disponibilità d’acqua tende a diminuire, la penuria porterà a
conflitti e per evitare guerre è necessario aumentare il prezzo dell’acqua
affinché sia così correttamente riflesso lo stato di scarsità. Insomma, la
garanzia da future guerre per l’oro blu è il mercato. In realtà queste idee
sono solo apparentemente chiare. I fatti denunciano un’altra situazione. I
fattori principali degli sprechi e della cosiddetta crisi dell’acqua, sono:
l’eccessivo sfruttamento agricolo, l’abnorme inquinamento industriale, l’
assenza di una politica mondiale dell’acqua che contempli una gestione a
lungo termine, integrata e globale. In definitiva, quelle che appaiono come
idee ragionevoli e pragmatiche sono scelte ideologiche che privilegiano la
dimensione economica a scapito di ogni altro valore. Nel modo di pensare
delle classi dirigenti si sottende sempre che il mercato sia un meccanismo
superiore a qualsiasi altro mezzo di regolazione quale ad esempio la
politica, la cooperazione, la solidarietà. Il risultato è che oggi, in un
mondo dominato dall’ideologia mercantile, circa un miliardo e mezzo di
persone non hanno accesso all’acqua potabile e che diecimila individui al
giorno muoiono di sete o a causa della cattiva qualità dell’acqua. Le
previsioni per il futuro sono poi ancor più drammatiche. Se persistono le
tendenze attuali tra una ventina d’anni la Terra ospiterà otto miliardi di
abitanti di cui tre – e per alcuni addirittura quattro miliardi - non
avranno accesso all’acqua. Mentre i restanti avranno seri problemi di
distribuzione e qualità. Ecco cosa lede e minaccia il diritto alla vita.

In diverse occasioni lei ha affermato che per evitare la petrolizzazione
dell’acqua è necessario riconoscerla come res publica. Di più: come res
publica mondiale. Come si raggiunge questo obiettivo?
Attraverso vari cambiamenti. Il primo consiste nel non mercificare la
risorsa idrica svincolandola dalle logiche della privatizzazione. Il secondo
nel de-statalizzarla svincolandola dalla logiche dello stato-potenza. E fin
qui abbiamo detto cosa non si dovrebbe fare. Passando alla parte
costruttiva, quel che andrebbe fatto e che in diverse parti del mondo si fa
è trasferire i diritti di proprietà e i poteri di gestione alle comunità
locali. E’ dimostrato che un sistema di regolazione affidato a forme di
democrazia diretta è più affidabile e più stabile rispetto al mercato e allo
Stato perché l’acqua è trattata come un bene comune molto meglio di quanto
facciano tante storiche istituzioni che hanno accompagnato la modernità e l’
industrializzazione. Ci sono numerosi esempi di questo tipo in Africa e
Asia. L’altro cambiamento in positivo concerne il superamento della ragione
tecnica. Il concetto che cose, esseri umani  e natura debbono far parte di
un processo gestionale in cui tutto è ridotto a risorsa economica, la cui
esistenza è riconosciuta solo nella misura in cui apporta un contributo
pertinente alla creazione del plusvalore, significa rubare  agli esseri
umani il loro immaginario. Significa privarli della capacità di pensare una
qualsiasi alternativa alla logica mercantile. E’ evidente che il superamento
della ragione tecnica non può avvenire che tramite lotte sociali. Solo così
potrà avviarsi un cambiamento in grado di creare le condizioni affinché l’
accesso alla vita sia garantito a tutti perché responsabilità di tutti. Si
può dire, tra virgolette, che si tratta di una rivoluzione. Una
 “rivoluzione” che passa per il controllo delle regole che guidano la
proprietà e la conservazione dell’acqua, che insieme all’aria è la fonte di
vita sulla Terra. Il Manifesto dell’acqua è infatti la proposta in forma
simbolica di una “rivoluzione” per il XXI secolo. E il prerequisito di
questo Manifesto e di questa “rivoluzione” è che l’acqua è un bene comune
appartenente all’umanità e a tutte le specie viventi.

L’urgenza di una politica mondiale per l’acqua a cui le fa riferimento è
dovuta a tre questioni: il mancato accesso all’acqua potabile per un
miliardo e mezzo di persone; la distruzione della risorsa idrica a causa tra
l’altro dello spreco e dell’inquinamento provocati dall’agricoltura
intensiva; l’assenza di regole universalmente riconosciute che non siano
quelle della mercificazione. Il manifesto si propone proprio di fornire
nuove regole attraverso un Contratto mondiale per l’acqua. Quali sono le
finalità principali di questo Contratto?
Costruire i presupposti destinati a mettere la risorsa acqua al servizio di
un futuro solidale. Vede, quando i dominanti affermano che bisogna
privatizzare l’acqua per risolvere il problema della sua penuria
sottintendono che la crisi sarà perenne e crescente. Non è così. Niente
dimostra che la penuria di oggi sia un fatto irreversibile. L’introduzione
dei meccanismi del mercato in tema di gestione dell’acqua poggia su
postulati del tutto ideologici. Lo dimostra il fatto che mercificare l’
acqua, petrolizzarla così come si dice, non ha l’obiettivo di rendere l’
acqua accessibile a tutti. Ma, viceversa, di gestire la penuria in modo da
lucrarci sopra a vantaggio ovviamente di pochi e mettendo gli utenti in
competizione fra loro per usi concorrenti o alternativi. Il Contratto
mondiale per l’acqua si propone di far uscire dai dogmi neoliberisti un bene
universale che appartiene a tutti perché senza di esso si spegne la vita.
Qui non si tratta di diverse opzioni ideologiche ma di riconoscere il
semplice fatto che l’acqua non si può sostituire con nessuna altra risorsa
così come ad esempio avviene con le fonti energetiche: tutti hanno bisogno d
’acqua, non si può scegliere di non consumarla a favore di un altro prodotto
naturale. Anche sul piano della teoria economica liberale quando un bene si
rivela insostituibile e senza alternative con beni concorrenti si sottrae
alla logica del mercato. In definitiva, l’acqua è un bene comune alla base
della vita umana. Ecco perché c’è necessità di nuove regole che non siano
finalizzate all’appropriazione privata dell’acqua. Il Contratto non è un
atto giuridico valido una volta per tutte. E’ un movimento, un processo che
va sistematicamente verificato. Il Contratto non è una ricetta. E’ uno
strumento che punta ad affermare una politica di solidarietà fra gli
abitanti del pianeta. Nello specifico è uno strumento destinato a favorire
processi di democrazia diretta delle comunità locali nel diritto di accesso
a questo bene vitale. Obiettivo del Contratto è che l’acqua sia intesa come
bene patrimoniale comune mondiale. Spiego la formula. La parola patrimonio è
qui usata in funzione della sua radice sanscrita che significa proteggere. L
’acqua è un bene patrimoniale perché è un bene da proteggere. Il titolare
di questo patrimonio è l’umanità intera. Da qui la sua caratteristica di
essere bene comune e bene mondiale. Questi fattori fanno dell’acqua un bene
planetario da gestire in maniera solidale e sostenibile. Sul piano dei
rapporti materiali i diritti e i doveri connessi all’acqua sono collettivi e
si esercitano in ogni comunità locale su “mandato fiduciario” dei
diritti/doveri della comunità umana.

Lei oggi ha la possibilità di mettere in pratica quanto ha teorizzato nel
corso di questi ultimi anni in materia di gestione democratica dell’acqua.
Come presidente dell’acquedotto pugliese quali sono stati i suoi primi atti?
Prima di risponderle è bene precisare alcuni passaggi che hanno condotto
alla mia nomina altrimenti non è chiaro il quadro della situazione. Intanto
è bene definire la mia posizione. Io sono presidente di una SpA. Ossia di un
soggetto giuridico che, per quanto ancora interamente a capitale pubblico,
ha trasformato l’acquedotto da attività pubblica a impresa privata.  In
altre parole l’ha trasformato in un servizio destinato non più ad un’utenza
ma ad una clientela. Non solo: la Spa aveva diviso l’attività aziendale
creando tre società partecipate il cui scopo era vendere servizi, competenze
e quant’altro. Ora, va aggiunto che l’acquedotto pugliese è la più grande
azienda pubblica della Puglia. Dunque si trattava di un processo di
privatizzazione nient’affatto secondario. A suo tempo Pietro Folena,
Francesco Martone e Nichi Vendola avevano creato l’associazione italiana
degli eletti per il Contratto mondiale dell’acqua in appoggio al Comitato
italiano. Coerentemente, quando Vendola è diventato presidente della Regione
Puglia mi ha domandato di assumere la presidenza dell’acquedotto con il
preciso incarico di realizzare un’agenzia pubblica della cultura dell’acqua
come bene comune. E così la prima cosa che abbiamo fatto è stato
reincorporare nella società madre due delle tre filiali partecipate dell’
acquedotto che erano state scorporate in virtù del processo di
privatizzazione. Mi riferisco alla società di programmazione e a quella dei
servizi. In questa maniera abbiamo ricostituito un unico soggetto eliminando
le propaggini tipiche di un’impresa capitalistica. E questo è stato il primo
passo. Il secondo consiste nell’aver iniziato ad affrontare il problema
delle perdite. Noi produciamo 580 milioni di metri cubi d’acqua all’anno e
ne fatturiamo solo 260. Ciò significa che 320 milioni di metri cubi prodotti
vanno perduti. Si tratta sia di perdite amministrative, ovverosia Comuni e
singoli che non pagano e che corrispondono ad un terzo delle perdite
complessive, sia di perdite tecniche dovute a cattiva manutenzione e che
corrispondono ai restanti due terzi delle perdite. In termini percentuali l’
acquedotto pugliese ha il 53,2% di perdite. E’ un enorme spreco di risorse,
non solo per la Puglia ma anche per la Campania in quanto l’acqua dell’
acquedotto pugliese viene soprattutto da quella regione. Il lavoro che
stiamo facendo è quello di attivare tutti i meccanismi finalizzati alla
riduzione delle perdite. La strada che abbiamo intrapreso non è breve ma
abbiamo iniziato a percorrerla. Terzo passo concreto della nuova gestione
riguarda il tema della partecipazione. Divido in due fasi questo passaggio.
La prima fase consiste nell’istituzione della Carta dei servizi. Un
documento con cui l’acquedotto indica gli impegni che assume in termini di
definizione e controllo delle attività  aggregando associazioni di
consumatori, cittadini, cittadinanza attiva e tutte le esperienze
significative della società civile. La seconda fase va ancora lanciata ed è
più complicata perché per molti il cambiamento, la rivoluzione tra
virgolette di cui parlavamo prima, non è possibile in quanto in Puglia tutti
sono corrotti, è necessario prima educare e dopo fare, la società civile è
debole e altre considerazioni di questo tipo. Bene, la seconda fase che ho
in mente consiste nel creare delle strutture attraverso le quali i movimenti
presenti nella società civile regionale possano essere associati e
costituire una consulta dei cittadini.

Se il centro-sinistra dovesse vincere le prossime elezioni politiche e
andare al governo cosa dovrebbe fare in materia gestione dell’acqua?
Dovrebbe rifare il quadro legislativo nazionale con una nuova Legge
ispirata da una serie di principi. Primo, l’accesso all’acqua è un diritto
umano per tutti. Pensi che ancora oggi il 15% della popolazione italiana non
ha regolare accesso all’acqua. Secondo, l’acqua deve essere governata  e
promossa come un bene comune pubblico mondiale. Terzo, i costi associati al
diritto all’acqua e al suo governo come bene comune devono essere presi in
carico dalla collettività attraverso la fiscalità e altri meccanismi
finanziari. In sostanza, il centro-sinistra dovrebbe far propria l’idea che
l’accesso all’acqua è un diritto. Dico di più, è un diritto alla vita.
Pertanto le attività finalizzate a mantenere l’acqua come bene comune devono
essere finanziate da strutture pubbliche. Quarto, mettere al centro del
governo dell’acqua la partecipazione dei cittadini attraverso iniziative
locali e forme di democrazia partecipativa. A partire da questi quattro
principi è necessario prevedere una serie di misure di tipo tecnico che
mettano a sistema la gestione delle acque reflue così come la
differenziazione delle acque per usi domestici e per l’agricoltura. Oggi
queste attività sono governate in maniera diversa da enti diversi. Si tratta
allora di realizzare un quadro coerente per una politica idrica.
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