rassegna stampa: DALL'AFRICA: "LASCIATECI LAVORARE"



a cura di "AltrAgricoltura Nord Est"
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tratto da "Greenplanet.net" -
DALL'AFRICA: "LASCIATECI LAVORARE"
Nel 1990 per un chilo di riso un produttore senegalese guadagnava 20
centesimi, 15 anni dopo ne guadagna 13.
«Basta aiuti, lasciateci lavorare i nostri campi e guadagnare il giusto
cambiando le regole del commercio internazionale».
NON VOGLIONO AIUTI DIRETTI, MA LA POSSIBILITÀ DI PRODURRE IL LORO CIBO
INVECE DELLE PRIMIZIE PER I PAESI RICCHI.
«Quando i riflettori dei vertici internazionali si spengono, G8, Wto,
Nazioni unite, poco importa: noi torniamo ai nostri campi, dalle nostre
famiglie, a tirare fuori il buono che c’è dalla terra tutti i giorni.
Abbiamo imparato che se va avanti così, con gli aiuti o i proclami, per noi
non cambia niente. Possiamo solo continuare a sfamare l’Africa con le nostre
braccia, come abbiamo fatto fino ad oggi».
Ibrahima ha meno di quarant’anni e vive a Dagana, nella Vallée du Fleuve, in
Senegal.
È tra i contadini africani che quest’anno, visto che al centro del vertice
dei G8 c’era proprio il loro continente, ha partecipato per il suo villaggio
alle azioni a Gleneagles del Roppa, la rete di oltre 60 organizzazioni
contadine di 10 paesi dell’Africa occidentale che ha lanciato ai grandi
della terra una sfida molto ambiziosa: «basta aiuti, abbiamo detto - spiega
Ibrahima - lasciateci lavorare i nostri campi e guadagnare il giusto
cambiando le regole del commercio internazionale».
Gli anziani di casa sua se lo ricordano quando, prima degli anni Sessanta,
le famiglie occupavano le terre di riporto nella stagione secca, dopo la
ritirata del fiume. «Ogni famiglia a quei tempi coltivava 4 o 5 ettari di
miglio o sorgo, e nella stagione piovosa accanto al miglio seminavano i
cereali africani, come souna e niébé e vivevamo bene».
Poi con gli anni Sessanta è arrivata, in quasi tutta l’Africa, la
“rivoluzione verde”: le terre erano nazionalizzate, ogni contadino riceveva
semi, fertilizzanti, pesticidi e la Compagnia nazionale comprava i raccolti
a un prezzo basso ma ancora remunerativo, mentre incassava il prezzo del
mercato internazionale.
A metà degli anni Ottanta, il dramma del debito: Fondo monetario
internazionale e Banca mondiale hanno cominciato a concedere prestiti per lo
sviluppo, ma solo a quegli Stati che privatizzavano scuola, servizi
essenziali e le compagnie agricole.
«Ci hanno catapultato sul mercato senza rete - racconta Ibrahima -. Abbiamo
dovuto cominciare a comprare da soli i semi, i pesticidi, i pochi
fertilizzanti che riuscivamo a permetterci. Ci siamo indebitati perché i
prezzi dei prodotti che vendevamo non hanno mai smesso di scendere, e gli
intermediari, che comprano l’intera produzione ai piccoli contadini come me,
che non hanno la capacità di vendere direttamente alle grandi compagnie
agroalimentari, intascano quasi tutto il nostro guadagno».
Per un chilo di riso nel 1990 un produttore senegalese guadagnava 135
franchi africani, 20 centesimi di euro.
Oggi, raccogliendo lo stesso chilo di riso guadagna 90 franchi africani, 13
centesimi di euro.

Il piano per l’Africa
Il premier britannico Tony Blair ha voluto che l’attenzione del G8 2005 si
concentrasse sull’Africa, il continente dimenticato. In circa sei mesi di
lavoro la Commission for Africa istituita da Blair ha prodotto dettagliate
raccomandazioni su come rimettere il continente africano sulla strada dello
sviluppo.
Il rapporto s’intitola: "Il nostro interesse comune", 400 pagine elaborate
da una commissione di 17 “saggi”, di cui 9 africani che raccomandano un
cospicuo aumento degli aiuti (25 miliardi di dollari l’anno fino al 2010 e
50 miliardi dal 2010 al 2015), la cancellazione totale del debito estero dei
paesi africani, la fine dei sussidi alle esportazioni per gli agricoltori
americani ed europei.
Tutto ciò accompagnato da pratiche di “buon governo” e di lotta alla
corruzione da parte dei leader africani. Il ghaneano Kingsley Y. Amoako,
segretario esecutivo della Commissione economica delle Nazioni unite per l’
Africa, commentando la questione della responsabilità condivisa, ha
osservato che «questo nuovo rapporto fa un passo in avanti riconoscendo che
anche il mondo sviluppato ha le sue brave responsabilità ed è parte dei
problemi africani».
Richard Dowden, direttore del Royal Africa Society di Londra, si è detto
colpito dal fatto che il rapporto Blair chiama in causa i paesi ricchi su
alcune questioni quali il riciclaggio di denaro sporco in Africa, l’uso di
tangenti, il furto delle risorse naturali, la rimozione delle barriere
doganali e delle sovvenzioni all’agricoltura, le leggi sull’immigrazione, la
vendita delle armi. Questo testo, proposto dalla presidenza inglese come
base negoziale per il G8, è stato però seccamente respinto dai negoziatori
degli altri paesi.

La Campagna per la riforma della Banca mondiale e Mani tese denunciano che
il risultato dell’attesissimo vertice di Gleneagles è ampiamente inferiore
alle attese sollevate. Gli impegni finanziari del G8 forniranno meno del 10
per cento della cancellazione totale del debito e meno del 20 per cento
degli aiuti necessari per bandire la povertà dalla storia, come richiesto
dall’oceanica manifestazione di Edimburgo.
Sorprendentemente, invece, i paesi del G8 hanno indurito la loro posizione
sul commercio internazionale, dove non annunciano di voler introdurre
protezioni o condizioni più favorevoli per i paesi poveri.
«Dopo aver sbandierato l’urgenza di intervenire per lo sviluppo dell’Africa
ed aver fatto proprie le parole d’ordine delle manifestazioni della società
civile, Tony Blair scodella un accordo che è un insulto ai poveri del
pianeta», ha dichiarato Antonio Tricarico di Crbm.
«Dei 50 miliardi di aiuti in più, 20 riguardano impegni vecchi. E poi i
fondi saranno erogati dal 2010, come se la povertà potesse attendere cinque
anni» ha continuato Tricarico. Si conferma la clausola secondo cui un
aumento degli aiuti per i paesi più poveri avverrà solamente se i conti
pubblici lo permetteranno, come chiesto dall’Italia.
«Se si permettesse loro di crescere con regole commerciali eque e proteggere
se necessario i loro giovani mercati, allora si uscirebbe davvero dal dramma
dello sviluppo» - ha concluso Antonio Tricarico.
La trappola commerciale
«L’Africa non è la terra di disperazione che spesso raccontate voi
giornalisti - contesta Ndiogou Fall, presidente di Roppa - perché, grazie a
politiche adeguate di sviluppo e di sostegno, può nutrire se stessa come fa
tutti i giorni, con il lavoro dei suoi contadini, che sono il 70 per cento
dei lavoratori africani. Nonostante la spietata concorrenza internazionale,
noi piccoli produttori dell’agricoltura familiare assicuriamo fino al 90 per
cento dell’approvvigionamento alimentare delle nostre comunità».
Malgrado le condizioni climatiche difficili, le catastrofi naturali, i tanti
conflitti, l’assenza di misure di protezione e di sostegno, tra il 1990 e il
2002 l’Africa ha aumentato la produzione agricola dal 20 all’80 per cento,
più dell’America del Nord (dallo 0 al 20 per cento) o dell’Europa dell’Est
che ha subìto una riduzione intorno al 50 per cento.
Ndjogou è un contadino del Mali, un paese che nell’epoca coloniale è stato
considerato il più importante silos di materie prime agricole per la
Francia. Purtroppo con l’indipendenza le cose non sono cambiate.
«Per disporre di un’entrata monetaria abbiamo dovuto sostituire le
coltivazioni che ci nutrivano con quelle d’esportazione, destinate all’
agrobusiness nei vostri paesi».
L’Africa occidentale si è ridotta, da forte esportatrice, a regione
importatrice di prodotti alimentari. Dal 1993 al 2002 le importazioni di
cereali sono cresciute del 60 per cento (per il resto del mondo l’aumento è
stato del 18,2 per cento).
Qual è il rischio che si nasconde dietro le buone intenzioni di Gleneagles?
«L’agricoltura in Africa è un settore in forte espansione e un mercato
alimentare che non può che crescere, soprattutto se le imprese dell’
agrobusiness riusciranno a mettere le mani sull’affare dei semi, che oggi
sono per l’80 per cento autoprodotti dai contadini, ma che potrebbero essere
presto sostituiti da varietà biotech a pagamento. Altro colpo grosso sarà
quello di buttare sul mercato occidentale sempre più prodotti africani a
basso costo», spiega Antonio Onorati dell’ong italiana Crocevia, che
sostiene la piattaforma africana.
Non parliamo di frutta tropicale o di cacao, «ma dei cosiddetti “prodotti di
controstagione” - continua Onorati - ossia fagiolini, fragole, pomodori,
meloni prodotti in Africa in campo aperto in quelle stagioni nelle quali da
noi non potrebbero crescere neppure in serra. Le fragole che a dicembre
cominciano ad arrivare dal Burkina Faso, ad esempio, sono buone e costano
almeno 15-18 euro al chilo. Ma ai contadini africani di questi profitti
arrivano i soliti pochi spicci, e visto che hanno piccoli terreni, per
guadagnarli debbono rinunciare a coltivare cereali e vegetali che
normalmente sfamano le loro famiglie. Risultato? La fame, quella di sempre.
Ma buoni affari per grossisti e imprese».
La condizione essenziale per la lotta alla fame è una politica commerciale
diversa: «prezzi più remunerativi per i contadini - spiega Onorati -,
priorità ai mercati locali, perché innanzitutto ognuno possa produrre nel
proprio campo ciò che mangia, e vendere soltanto il resto per comperare ciò
che gli manca. Poi un nuovo governo dei prezzi internazionali, per evitare
le speculazioni, e la trasformazione di tutti i sussidi che le aziende
ricevono per esportare, in finanziamenti per politiche di sviluppo
sostenibile delle proprie aree rurali, nel Nord come nel Sud del mondo. Ma
mi chiedo quando i nostri otto paesi diventeranno così grandi da potersi
permettere la verità?».
Le terre contadine
Per sostenere la lotta dei contadini africani nei prossimi anni, in Italia è
stata lanciata EuropAfrica/Terre contadine, una nuova campagna nel corso
della quale le “Terre contadine”, del Nord come del Sud del mondo
prenderanno la parola per raccontare la loro lotta quotidiana per produrre
cibo sano e di qualità, per proteggere l’ambiente e per stringere con i
cittadini e i consumatori un’alleanza che costringa le leggi che regolano il
mercato a rispettare e dare il giusto valore al patrimonio rurale di questo
pianeta.
La campagna è promossa dalle ong Terra nuova e dal Centro internazionale
Crocevia per il Ga-Gruppo d’appoggio al movimento contadino dell’Africa
occidentale - fra gli altri Aucs, Cipsi, Cisv, Cospe - con la partecipazione
di Coldiretti, del Roppa e con la collaborazione di Roba dell’Altro Mondo
fair trade.

Info: www.europafrica.info oppure www.croceviaterra.it
tratto da www.wema.com - luglio 2005
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