rassegna stampa: la GDO italiana sotto tiro delle grandi multinazionali del settore.



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Green Planet" - 17/02/05
I LOVE YOU, CARRELLO
Gli inglesi di Tesco e gli americani di Wal-Mart vogliono comprarsi la
grande distribuzione italiana. Che non è stata capace di affrontare la
globalizzazione.
Per Silvio Berlusconi la 'casa degli italiani' è stato un intermezzo: la
Standa, mitica insegna della distribuzione made in Italy, è finita in buona
parte ai tedeschi della Rewe.
I Benetton sono rimasti pochissimo nella Gs, i cui 363 supermercati e 17
iperstore adesso fanno capo ai francesi della Carrefour.
La famiglia Agnelli sta per uscire definitivamente dal settore: Rinascente,
altro marchio leggendario, è in vendita e gli spacci alimentari Sma sono già
stati rilevati da altri francesi, quelli della Auchan, alleati dal 1997.
E se dopo i Coin, che stanno cedendo a un fondo di private equity i loro
grandi magazzini, alzeranno bandiera bianca pure gli alfieri della vecchia
guardia come Bernardo Caprotti della Esselunga e Marco Brunelli della
Finiper (due dei fondatori della distribuzione moderna all'italiana), a
sventolare il tricolore resteranno soltanto le Coop 'rosse'. Che, tra
l'altro, a prendere la Sma ci avevano pure provato.

Come mai, se i gruppi internazionali guadagnano un mucchio di quattrini, gli
imprenditori italiani stanno alla larga dalla grande distribuzione e ogni
pezzo messo in vendita termina in mani straniere?
L'analisi di Benoît Lheureux, presidente a amministratore delegato di Auchan
e Sma, è semplice: "Nel nostro settore, i grossi continueranno a crescere e
non credo che ci siano gruppi italiani che abbiano la voglia o la
possibilità di diventare veramente grossi. Inoltre, la riduzione dei consumi
ha diminuito i margini di redditività e, se continua così, ciò contribuirà a
spingere alcuni proprietari di imprese medio-piccole a vendere e a cambiare
mestiere".
Aggiunge Nicola Pianon, vicepresident del Boston Consulting Group, uno dei
giganti mondiali della consulenza strategica: "La distribuzione retail,
specie quella alimentare, non può avere una taglia ridotta. Non esistono
esempi di successo di concorrenti piccoli. Wal-Mart e Home Depot, negli Usa,
o Mediamarkt in Europa, sono tre casi di successo e sono tutti e tre molto
grandi. Non è possibile, nel lungo periodo, continuare a essere profittevoli
restando piccoli. E l'Italia, a questo proposito, paga la classica struttura
familiare del suo capitalismo. Arrivati a un certo punto, mancano le risorse
finanziarie e manageriali per fare il salto quantitativo. Confesso che da
italiano vivo con una certa frustrazione questo limite, perché nel commercio
abbiamo tradizioni e competenze storiche fortissime".

Insomma, se alla Carrefour quando le cose non vanno benissimo al massimo
salta il manager (com'è successo pochi giorni fa a Daniel Bernard, che pure
aveva portato la società transalpina alla leadership europea e al secondo
posto mondiale alle spalle del gigante Wal-Mart) in Italia la crisi dei
consumi con la conseguente riduzione dei guadagni può contribuire a una
girandola di cambi di proprietà.
L'azienda familiare si chiede se è proprio il caso di tener duro oppure se
non è il momento di cedere alle lusinghe che arrivano da lontano.
A maggior ragione se - come succede a Caprotti - ti corteggiano da dieci
anni, vedi l'utile assottigliarsi e non vuoi lasciare agli eredi la gestione
del business.
Per giustificare il nanismo dei big italiani della grande distribuzione (la
Coop, leader in Italia, non entra tra i primi 25 gruppi mondiali), si tira
sempre in ballo il riuscitissimo 'catenaccio' dei negozianti tradizionali,
che con le loro organizzazioni e gli appoggi politici hanno sempre
ostacolato l'apertura delle grandi superfici tipo super e iper. Lo sostiene
anche il capo di Coop, Aldo SoldI.
Francesi e tedeschi, e ora americani e inglesi, possono espandersi
all'estero perché a casa propria gli hanno permesso di diventare forti e
robusti. Ora si mormora persino di una ipotetica fusione tra Carrefour e
Rewe, per creare un colosso al riparo da scalate.

Il mercato italiano vale circa 260 miliardi di euro di vendite, di cui oltre
cento dovute a prodotti alimentari. Nonostante un 2004 non eccezionale,
quello italiano resta un mercato appetibile.
Specie per chi in Italia ancora non c'è. Se Esselunga e Bennet saranno messe
in vendita, tra i più interessati ci saranno gli americani della Wal-Mart e
i britannici della Tesco.
Dice ancora Pianon: "I potenziali compratori di gruppi italiani non mancano
perché in Italia c'è stato un rallentamento alle aperture di nuovi punti
vendita: ciò fa sì che per un nuovo entrante, ottenere le licenze richieda
tempi piuttosto lunghi. Ciò attribuisce alle eventuali 'prede' italiane un
valore maggiorato da una sorta di premio legato ai tempi ipotetici che si
impiegherebbero ad aprire una catena partendo da zero".
Secondo le cifre che circolano negli ambienti finanziari, Esselunga potrebbe
valere tra i 3,5 e i 4 miliardi di euro, mentre per la Bennet circolano
stime inferiori al miliardo di euro. Ufficialmente, né Caprotti né i Ratti
hanno mai annunciato l'intenzione di uscire di scena, ma tra gli addetti ai
lavori le due operazioni sono considerate molto probabili.

Secondo Remigio Ruggeri, docente di Logistica al Politecnico di Milano, il
mercato italiano ha un certo appeal anche per un altro motivo: "I prezzi di
vendita dei prodotti sono superiori alla media dei prezzi praticati nei
paesi europei e quindi ci sono in prospettiva margini interessanti per chi
ha costi di gestione inferiori".
Nella grande distribuzione, dove si movimentano volumi pazzeschi, la
logistica è un asset fondamentale. "E neppure nella logistica c'è più un
grosso operatore italiano", sottolinea mestamente il professore del Poli.

L'inesorabile passaggio in mani estere della distribuzione tricolore fa
alzare il livello di allarme sulle ricadute negative per la produzione
italiana, alimentare e non.
Un allarme che non è condiviso totalmente da Enrico Beltramini, che insegna
innovazione alla Santa Clara University, in California, e che negli anni
Ottanta collaborò con il ministero dell'Industria per l'applicazione anche
in Italia delle direttive comunitarie sulla liberalizzazione dei commerci.
"Già nel 1992, quando apparvero in Italia i primi hard discount, ci fu chi
gridò alla probabile sparizione dei prodotti di marca. Non è andata affatto
così. In verità, su quella parte della filiera che è il confezionamento dei
prodotti alimentari c'era già stata una massiccia cessione di aziende ad
azionisti esteri: quindi la perdita di nazionalità è avvenuta in tempi ormai
lontani. Per quanto riguarda gli attuali produttori locali italiani di
alimenti non confezionati, che rappresentano circa il 15 per cento delle
vendite di iper e super, non mi preoccuperei troppo: se fanno roba buona,
continueranno a vendere, anche se il padrone della catena sarà tedesco o
francese e non più italiano".

Al gruppo Auchan negano con forza di voler colonizzare gli scaffali. Dice il
presidente Lheureux: "Nei prodotti a marchio Auchan e Sma il made in Italy
rappresenta l'82 per cento del totale e addirittura il 95 per cento
nell'alimentare. Negli ipermercati Auchan il 30 per cento dei prodotti è di
origine locale. E si arriva al 50 per cento nel caso dei vini in Sardegna o
al 64 per cento dei formaggi nel Lazio".
Il capo di Auchan in Italia ha anche la ricetta per fermare gli hard
discount: "Molti esperti dicono che il loro peso sia destinato a crescere
anche qui, però secondo me tutto dipende dalle risposte che saprà dare la
grande distribuzione classica: noi abbiamo creato gamme di prodotti da
vendere tutti i giorni a prezzi contenuti e così accontentiamo anche quella
fascia dei nostri clienti che bada soprattutto al prezzo".

Consumi a clessidra
Gli esperti di sociologia e consumi lo chiamano 'effetto clessidra'.
Crescono i consumi di superlusso, vanno bene hard discount e ipermercati
dopati da tagli di prezzi a raffica, soffre la classe media: sia in termini
di prodotti che in quanto a canali di vendita, se è vero che se la passano
male sia i negozi classici che i piccoli e grandi elettrodomestici.
Nonostante la rarefazione dei turisti spendaccioni, intimiditi dall'euro
forte, le vendite dei prodotti di lusso in Italia, nel 2004, sono andate
bene. La Bulgari, guidata da Francesco Trapani, che in Europa ha venduto
quanto nel 2003, sul mercato domestico ha messo a segno un incremento di
quasi il 3 per cento.

E il 21 dicembre il negozio di via Montenapoleone a Milano della Gucci
(controllata dal gruppo francese amministrato da François Henri Pinault) ha
fatto l'incasso record giornaliero di tutti i tempi: 320 mila euro.
Clientela italiana ben disposta anche negli shop cittadini di Louis Vuitton,
da Bologna a Torino, da Bologna a Genova, da Milano a Palermo.
Passando dal tetto al pavimento della clessidra, salta agli occhi il più 3,5
ottenuto, secondo le ultime rilevazioni disponibili della Nielsen, dal
canale dei discount, l'unico a crescere in modo massiccio un po' in tutta
Italia.
La tendenza alla polarizzazione emerge anche analizzando il settore
dell'elettronica di consumo. Il 2004 è stato l'anno dei televisori a schermo
piatto (plasma e LCD), ma anche dei lettori di Dvd a prezzi stracciati
(anche intorno ai 40 euro) con marchi sconosciuti come Medion o Scott.

"Le vie di mezzo piacciono sempre meno e per molte tipologie di prodotti,
come carta igienica o acqua minerale, che il consumatore giudica come delle
commodities, non c'è alcuna remora a comprarli in un hard-discount: poi
magari il risparmio serve a 'finanziarie' un viaggio in posti lontani o un
oggetto costoso", fa notare il vicesegretario della Confcommercio, Carlo
Mochi. "Siamo di fronte alle due anime del consumatore: c'è la parte
razionale, che pensa al risparmio, e salta fuori soprattutto quando
l'economia non ha il vento in poppa. E c'è l'anima emozionale, per la quale
l'acquisto di un bene desiderato va anche oltre le considerazioni
economiche", sottolinea Roberta Sebastiani, che insegna marketing
all'Università Cattolica di Milano.
Secondo la docente, i primi hard discount giunti in Italia all'inizio degli
anni Novanta puntarono solo sull'anima razionale.

"Ora però alcuni ipermercati cominciano a solleticare entrambe le anime del
consumatore nell'ambito dello stesso punto vendita", dice la Sebastiani.

E nubi sempre più cupe si addensano sulle teste dei dettaglianti
tradizionali, che nel settore alimentare, secondo un'elaborazione della
Rinascente, l'anno scorso, hanno venduto per 36,1 miliardi di euro. Contro i
38,3 dell'anno prima e i 41,8 del 2002.

Coop rosse sulla linea del Piave
"In Italia, per anni, si è privilegiato il piccolo dettaglio. E chi aveva
soldi da investire, piuttosto che nel commercio e nella grande
distribuzione, li metteva altrove", dice Aldo Soldi, presidente di Coop, il
più importante gruppo italiano della distribuzione moderna.
"Non c'è stato capitalismo della distribuzione. Ci sono aziende che hanno
guadagnato molto e, ora che la redditività si è ristretta per la crisi dei
consumi, alcuni azionisti storici pensano che sia il momento giusto per
uscire dal comparto con un bel gruzzolo".

Sareste disposti a comprare Esselunga e Bennet, se saranno messe in vendita?
"Coop si ritiene in diritto-dovere di evitare che ulteriori pezzi della
grande distribuzione italiana finiscano in mani straniere. Se e quando
queste società saranno sul mercato, noi ci faremo vivi".

È vero, come è stato scritto, che Bernardo Caprotti (vicino a Forza Italia)
non cederebbe mai la sua Esselunga alle Coop 'rosse'?
"L'ho letto anch'io. Credo che sia importante che in un sistema distributivo
ci sia equilibrio. Da noi ci sono già molti stranieri, se Esselunga passasse
sotto capitali esteri si avrebbe un grave squilibrio".

Ne avete parlato con esponenti del governo o della maggioranza?
"C'è consenso politico sul far rimanere italiana una parte della
distribuzione. Coop ha successo e non rinuncia alle sue origini, alle
ragioni della solidarietà e della difesa del potere d'acquisto. Mi sa un po'
di vecchio definirla 'rossa' e chiudere il discorso".

Se la distribuzione va in mano agli stranieri, è un rischio per i produttori
italiani?
"Non c'è dubbio che i grandi gruppi traggano vantaggi proprio facendo
accordi a livello internazionale. Quindi il sistema produttivo italiano,
specie quello agroalimentare che è fatto di piccole e medie imprese, rischia
di essere tagliato fuori. Non siamo preoccupati della concorrenza ma per le
ricadute negative proprio nella produzione".

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Giganti europei: i primi 15 gruppi della grande distribuzione (escluse le
società 'solo non food') per volume d'affari (in miliardi di $) nel 2003.
Carrefour  Francia       79,8
Ahold      Olanda        63,4
Metro      Germania      60,6
Tesco Gran Bretagna      54,8
Rewe       Germania      44,3
Intermarché Francia      43,5
Aldi       Germania      38,1
Lidl & Schwartz Germania 37,1
Edeka      Germania      35,3
Auchan     Francia       32,5
Leclerc    Francia       30,8
Tengelmann Germania      30,1
Sainsbury Gran Bretagna  29,8
Casino    Germania       26,0
Dalhaize  Group  Belgio  23,6

Fonti: UBIFRANCE e LSA
L'Espresso, 17 febbraio 2005
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