Rumiz : Mostar, Bosnia



Inoltro questo interessante articolo di Paolo Rumiz
scritto alla vigilia della riapertura del ponte di
Mostar

Francesco Lauria
http://francescolauria.blog.tiscali.it

Paolo Rumiz: Mostar, Bosnia. La città è ancora divisa 

Tratto da “la Repubblica”, 17 luglio 2004  
 
Il ponte di Mostar ritorna. Abbattuto dai cannoni
croati il 9 novembre 1993, sarà restituito alla città
il 23 luglio, dopo anni di lavori, quasi identico a
quello di prima. L'evento dell'inaugurazione
restituisce alla Bosnia la mitica parabola di pietra
rimasta sospesa per tre secoli sull'acqua verde della
Neretva. Costruito dall'architetto turco Hajruddin
durante l'occupazione ottomana dei Balcani, il Ponte
Vecchio era diventato il simbolo dell'incontro fra
Oriente e Occidente, il luogo della memoria di un
grande polo d'incontro fra cattolici, musulmani e
ortodossi. Ora si spera che, attorno a quel simbolo
ritrovato, la città ritrovi anche l'unità, spezzata da
anni di guerra e feroci divisioni etniche. "Qui è
Palestina" sta scritto sui muri di Mostar, a conferma
che un muro esiste ancora e che ogni ponte destinato a
scavalcarlo può essere vissuto da alcuni come un
disturbo. Dietro, c'è qualcosa di peggio della guerra:
la memoria di un tradimento. Quello dei croati, che
fino al maggio del 93 avevano difeso la città
dall'aggressione serba fianco a fianco con i
musulmani, e poi su ordine di Zagabria aggredirono
questi ultimi, distruggendo la parte est di Mostar ed
espellendone circa 30 mila persone. Poi, ovviamente,
arrivarono le vendette: e oggi non è facile sapere se
lo Stari Most - ripristinato su volontà dell'Unesco
con i soldi della Banca mondiale e numerosi sponsor -
riuscirà ad attecchire, oppure sarà respinto come un
corpo estraneo da una comunità ferita. Il ponte
ritorna, ma Mostar? Si fa la spesa insieme, ci si vede
per strada, ma di fatto la città è divisa, o è stata
divisa fino a ieri nelle sue principali funzioni. Due
sistemi postali, due reti elettriche, centri sportivi
e culturali spaccati per appartenenza religiosa; c'è
chi aveva proposto addirittura due università e due
ospedali. Non c'è unità nemmeno sul valore da
assegnare al ponte che rinasce. Che cos'è: un'opera
d'arte ottomana o il simbolo dell'incontro fra Europa
e Islam? Un manufatto di pietra o il luogo della
memoria collettiva? La vecchia popolazione non aveva
dubbi, lo Stari Most era la seconda cosa. Per questo
fu abbattuto. Era il simbolo e non la pietra che si
voleva disintegrare. Tutta la guerra in Bosnia si è
concentrata sui simboli dell'appartenenza culturale e
religiosa. La biblioteca di Sarajevo è solo un
esempio. A Mostar i bombardamenti hanno colpito, oltre
al ponte ottomano, la chiesa francescana, i minareti,
il vescovado ortodosso. Distruggere la pietra antica
significa ipotecare il futuro; tagliare la memoria di
chi verrà, dirgli che la coabitazione non è mai
esistita, non può esserci, dunque non ci sarà mai. È
il modo più facile per distruggere, sradicandola, una
comunità plurale. Per questo, nel '93, la gente di
Mostar non volle nemmeno vedere la distruzione del
ponte. Oggi, dopo una guerra feroce e soprattutto dopo
che la città è stata ripopolata da immigrati cattolici
e musulmani estranei alla cultura locale, il senso del
ponte non è più lo stesso. Don Kreso Puljic, parroco
di Santa Ivana, per esempio, fatica a capire tutto
questo interesse internazionale per un manufatto.
Lamenta l'eccesso di moschee, cresciute da 13 a 37. E
non spiega che quelle moschee, forse, sarebbero
rimaste 13 se qualcuno non avesse cominciato la guerra
con la scusa di un fondamentalismo che in Bosnia non
esisteva ancora. Accenna ai "traumi della dominazione
turca", lamenta l'invadenza dei capitali arabi, spiega
che la mancata realizzazione di un territorio autonomo
per i croati cattolici è stato "una tragedia". Molti a
Mostar faticano ad accettare la fretta con cui la
comunità internazionale cerca di impostare la
convivenza, calandola in qualche modo dall'alto. Molti
non dimenticano che nel 1993 furono le Nazioni Unite,
attraverso i negoziatori Cyrus Vance e Robert Owen, ad
acuire il conflitto, disegnando una Bosnia divisa,
dove la parte croata avrebbe avuto Mostar come
capoluogo. "Le stesse persone che prima ci dicevano
che non potevamo vivere assieme perché eravamo
diversi, oggi, a guerra finita, ci dicono che dobbiamo
vivere assieme perché siamo tutti eguali", lamenta il
vescovo di Sarajevo. "Entrambi sono discorsi
inaccettabili. La convivenza si costruisce
sull'accettazione della diversità". Se non c'è il
rancore o l'amnesia, c'è talvolta la banalizzazione.
"Andate a visitare Mostar e le sue meraviglie
d'Oriente!", leggi sui dépliant delle agenzie di
viaggio croate sulla costa dalmata. La Neretva è a due
passi da Curzola e Brazza, si può andare e tornare in
giornata. Basta non andare troppo per il sottile, non
interessarsi troppo ai villaggi musulmani che
precedono la città sul basso corso della Neretva,
completamente distrutti dalle mine per impedire il
rientro degli abitanti. Insomma: tutto dimenticato,
l'orrore è già diventato esotismo. In città ci si
chiede: l'Unesco ha avuto il suo giocattolo, ma a
Mostar chi pensa? Arrivano le televisioni e le reti
globali, ma poi, a festa finita, che succede? Il ponte
è rifatto, ma chi rifà la comunità? "La situazione è
migliorata", spiega l'architetto Francesco Siravo,
della fondazione Aga Khan che si occupa di restauri.
"Quando arrivai qui alla fine del '99 il viale
centrale era ancora come una trincea dopo un
bombardamento a tappeto. I ponti distrutti, i giardini
dei parchi pieni di tombe fresche. Oggi si sono
superati molti risentimenti, la città ricomincia a
funzionare, gli intellettuali delle due parti si
parlano. Ma la strada è lunga". Intanto la guerra che
si è accanita sulle pietre, continua con le pietre
anche in tempo di pace. A Mostar Est si erigono
moschee finanziate dall'Iran o dai Sauditi; così
numerose che persino i musulmani locali ci ridono
sopra, dicono "Samla" al posto di "Salam", e
quell'inversione di sillabe è uno sberleffo ai
politici islamici che vorrebbero mettere il saluto
arabo al posto dello slavo "Dober dan". A Ovest la
chiesa francescana ricostruita è diventata un mostro
di cemento che torreggia per superare in altezza le
moschee. Il rischio da evitare è quello di un ponte
senza sponde. Aggrappato al nulla.  



	

	
		
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