Intervista a Michele Nardelli.



Intervista a Michele Nardelli.
Associazione Progetto Prijedor

a cura di Francesco Lauria 
http://francescolauria.blog.tiscali.it


Come nasce l'idea del Progetto Prijedor e la volontà
di costituire una Agenzia per la Democrazia Locale?

L’idea del Progetto Prijedor nasce da tante cose
insieme, la casualità di una richiesta di aiuto
rivolta nel 1995 alla Casa per la Pace di Trento, la
volontà di avviare un’iniziativa umanitaria in un
luogo dove non andava nessuno, il bisogno di conoscere
e di abitare il conflitto, una sfida con noi stessi.
Ecco, forse quest’ultimo aspetto è quello per alcuni
versi decisivo: la volontà di portare un messaggio di
pace e di speranza in un luogo, Prijedor, considerato
inaccessibile, in preda al nazionalismo e in mano ai
criminali di guerra. La volontà di sporcarsele le mani
in un processo di diplomazia al limite del possibile,
nel trovarsi a trattare con personaggi coinvolti nella
pulizia etnica, a stringere mani che sapevi essere
macchiate di sangue, nel forzare contesti altrimenti
destinati alla chiusura e all’autismo.

A questo si è progressivamente aggiunta una
consapevolezza: quella della postmodernità dei
processi che hanno sconvolto i Balcani negli anni ’90
ed ancor oggi. Una diversa chiave di lettura della
“guerra dei dieci anni”, non una guerra etnica come
spesso erroneamente è stato detto ma una guerra per
ridisegnare poteri ed interessi che hanno molto a che
vedere con il nostro tempo, ed in particolare con le
modalità di dispiegarsi della globalizzazione e con la
finanziarizzazione dell’economia.

Infine l’individuazione dell’Europa come possibile
chiave per demolire un nazionalismo usato peraltro
come paravento di una nuova classe di criminali,
rompere l’isolamento e dunque il consenso verso il
nazionalismo, guardare a nuovi contesti
politico-istituzionali e regolativi per scardinare
quel contesto neofeudale (i signori degli uomini e
della terra) che oggi descrive bene la situazione di
molti dei paesi nati dalla disintegrazione della
vecchia Jugoslavia.

Da qui l’idea di utilizzare l’opportunità fornita
dalle ADL, intelligente intuizione che permette di
coniugare istituzioni locali e società civile.

Nel 1996 la Repubblica Srpska e Prijedor erano
considerati una sorta di "buco nero". Quale è stato il
percorso di questi anni? Come si evoluto il quadro
intorno a voi?

Sì, un buco nero. O meglio, ancor più nero rispetto ad
un contesto già piuttosto segnato. Perché, è bene
ricordarlo, fino alla fine del 1997 gli aiuti
internazionali del dopoguerra bosniaco andavano per il
98% alla Federazione mussulmano croata e solo il 2%
alla Republika Srpska. Queste percentuali ben
rappresentano l’atteggiamento della comunità
internazionale, ma devo dire anche del mondo della
pace, perché andare a sporcarsi le mani non è
propriamente bello e facile.

Così quando cercammo di coinvolgere Unops (l’agenzia
delle Nazioni Unite che stava avviando il programma
Atlante per la cooperazione decentrata in BiH), in un
primo momento la risposta fu negativa, perché lì c’era
il rischio di andare ad aiutare i cattivi, i
criminali, gli assassini. Un atteggiamento, questo,
condiviso inizialmente anche da molte associazioni e
contro il quale abbiamo dovuto continuamente
scontrarci. Alla fine, però, i risultati ci hanno dato
ragione, tanto che oggi non solo Prijedor non è più un
buco nero, ma viene indicata come la città del
ritorno, parte importante delle reti europee delle
città. Bisogna però dire molto chiaramente che ancor
oggi abbiamo a che fare con pratiche e culture per cui
la pace si esporta con la forza o la coercizione,
bypassando il nodo dell’elaborazione collettiva del
conflitto, con il risultato che Karadzic e Mladic sono
ancora liberi e protetti dal consenso omertoso della
gente.

A Prijedor abbiamo invece scelto di percorrere una
strada diversa, certamente costosa nel mettersi in
gioco di ciascuno di noi, nella costruzione di
relazioni fra le comunità e, a partire proprio da
questa prossimità, che vuol dire conoscenza, rispetto
e fiducia, nel poter affrontare insieme anche la
lettura di ciò che è avvenuto, l’elaborazione e
talvolta anche il perdono e la riconciliazione.

Dopo otto anni siamo ancora all’inizio di questo
percorso (come si vede, si tratta di tempi
incompatibili con le modalità tradizionali della
cooperazione internazionale), anche se i risultati in
questi anni si sono visti concretamente, nell’aver
contribuito a costruire le condizioni per il ritorno
dei profughi (fino al 1998 non solo non era rientrata
anima viva, ma il tema era tabù), per la ricostruzione
dei villaggi devastati e dei luoghi di culto,
nell’aver avviato le prime occasioni di dialogo fra le
diverse comunità. La rottura dell’isolamento ha
determinato altresì che il peso dei partiti
nazionalisti andasse progressivamente diminuendo, che
si facesse terra bruciata attorno ai personaggi più
compromessi con la pulizia etnica e la guerra. Così
come non credo sia affatto casuale l’elezione a
sindaco di Prijedor di una donna espressione di un
partito non nazionalista. Per raccontare il percorso
di questi anni ci vorrebbe un libro, ma per questo ci
penseremo. Sì il contesto è profondamente cambiato,
anche se il più – almeno sul piano dell’elaborazione
del conflitto – rimane ancora da fare.

Quali prospettive economiche per la Bosnia? Come
giudichi i processi di privatizzazione che stanno
coinvolgendo anche il territorio dell'ADL?

Questo è un tema di grosso spessore, che non può certo
essere affrontato esaurientemente in poche battute.
Per questo ti rimando al materiale che come
Osservatorio sui Balcani abbiamo prodotto in questi
anni, in primis il Manifesto per lo sviluppo locale
nei Balcani e gli approfondimenti realizzati in
occasione del convegno di Belgrado del settembre 2003.

In breve la questione è questa. Sgombriamo il campo da
alcuni equivoci che portano a considerare questi paesi
come arretrati o sottosviluppati. Non è affatto così,
anzi le economie che li caratterizzano sono immerse
nei processi della postmodernità. Altro equivoco è
quello della transizione verso l’economia di mercato.
Che non esiste, per il semplice fatto che l’economia
di questi paesi era già economia di mercato, certo con
una sua peculiarità data dalla natura mafiosa (questo
era lo stato) delle relazioni economico-sociali nei
paesi a capitalismo burocratico. In questi anni si è
passati da una deregolazione mafiosa (che occupava lo
stato e che doveva almeno salvare le apparenze) ad una
più esplicita, aperta a tutto.

Processi che segnano anche le privatizzazioni in
corso: la socializzazione delle perdite e la
privatizzazione delle rendite. Non che l’apparato
industriale della vecchia Jugoslavia facesse gola a
qualcuno, obsoleto com’era e segnato dalla guerra.
Quello che ingolosisce gli speculatori di ogni risma
erano e sono le produzioni senza controllo (nocività,
inquinamento), la manodopera che non costa nulla e
priva di tutele sindacali e soprattutto il valore di
rendita delle aree industriali che spesso sorgevano
nel cuore delle città. Di qui anche i fenomeni di
delocalizzazione delle imprese che riciclano su questi
territori i macchinari non più in regola con le
normative europee (un duplice guadagno, dunque) e di
speculazione immobiliar-commerciale sulle aree
industriali dismesse. Tutto questo, sia chiaro, ci
riguarda da vicino, perché gli attori di questi
processi hanno molto a che vedere ad esempio con il
miracolo economico del nord est italiano. 

I processi di privatizzazione sono peraltro l’iceberg
della rinuncia da parte della politica e delle
istituzioni ad avere un qualche ruolo di indirizzo
nell’economia e dunque rischiano di diventare una pura
e semplice svendita del patrimonio pubblico e del
territorio. Oltretutto le comunità locali sono
completamente tenute fuori da questi processi,
fortemente centralizzati: mi è capitato più volte di
discutere con i rappresentanti della società civile e
delle istituzioni locali del futuro urbanistico delle
città a forte presenza industriale, i quali mi
spiegavano la loro totale impotenza di fronte alla
futura destinazione di aree di valore strategico per
una qualsivoglia opera di riqualificazione urbana.

In questo contesto di generale deregolazione e di
vuoto di potere da parte delle istituzioni, il ruolo
delle ADL può arrivare fino ad un certo punto e non
oltre: comunque decisivo è il rapporto che si mette in
moto con la comunità locale sostenendone il ruolo di
denuncia, di interdizione e di costruzione di nuova
consapevolezza.

Quali sono le "ripercussioni" sui comuni trentini
dell'esistenza dell'ADL?

Nell’ADL di Prijedor concorrono, oltre alla
Municipalità locale, l’Associazione Progetto Prijedor
(partner leader), la provincia di Cordoba, il Coté
d’Or francese e più recentemente il Sindacato dei
pensionati del Friuli Venezia Giulia. All’Associazione
Progetto Prijedor aderiscono venti comuni trentini, un
comprensorio e diverse associazioni di volontariato. 

In questa maniera, un gruppo significativo di enti
locali della provincia di Trento sono entrati a far
parte della rete europea delle istituzioni locali
impegnate nella diplomazia delle città. In altre
parole hanno cominciato ad abitare la globalizzazione
in forma attiva, in primo luogo cominciando a prendere
coscienza di che cosa significa il concetto di
interdipendenza, costruendo legami profondi con
territori segnati dai moderni conflitti, attivando
infine le proprie risorse di comunità in singoli
progetti di solidarietà e di cooperazione.

Ma la cosa forse più importante è quella di aver
imparato a guardarsi dentro, osservandosi da fuori.
Prendendo consapevolezza così delle proprie
prerogative ma cogliendo anche le criticità del
proprio territorio. 

E’ questo un processo ancora embrionale, non sempre
elaborato collettivamente, ma credo a lungo andare di
grande valore. Nelle parecchie centinaia di persone
che in questi otto anni di relazione fra la comunità
trentina e quella di Prijedor sono state coinvolte a
vario titolo (dalle adozioni a distanza ai progetti
nell’agricoltura, dallo sport ai temi più complessi
dell’elaborazione del conflitto), è cresciuta la
consapevolezza del villaggio globale, consapevolezza
che spesso ha coinvolto anche amministratori e
rappresentanti delle istituzioni locali che forse per
la prima volta si sono trovati ad essere protagonisti
di una diplomazia parallela che talvolta sa arrivare
laddove falliscono le cancellerie.

Così il Comune di Trento, capoluogo della nostra
autonomia, ed il Comune di Massimeno, il più piccolo
Comune del Trentino con meno di cento abitanti, hanno
avviato – passatemi il termine – una loro politica
estera se mai possiamo ancora parlare di politica
estera e di politica interna.

L’esperienza ci dice che non servono grandi mezzi
finanziari, nella relazione di prossimità e di
reciprocità quel che serve è la capacità di attivare
le risorse del territorio, le esperienze
professionali, i saperi, le modalità di autogoverno. E
poi, ma solo nell’ambito di queste relazioni, anche il
sostegno a progetti specifici purché ideati, condivisi
e gestiti dalle comunità interessate.

Potresti raccontarmi la genesi e la messa in pratica
dell'iniziativa "Anch'io cittadino d'Europa" che si è
svolta in occasione delle ultime elezioni europee?

Nell’ambito del Forum Civico di Prijedor. Luogo che si
è andato costituendo lungo il percorso
sull’elaborazione del conflitto che dalla fine del
2002 ha visto impegnate una trentina di persone delle
varie nazionalità presenti nell’area di Prijedor che
avevano collaborato a vario titolo con il Progetto
Prijedor e l’ADL. Ad un certo punto abbiamo riunito le
persone che nel corso degli anni avevano dimostrato
una maggiore sintonia con il nostro approccio e
abbiamo detto loro: “Care amiche e cari amici, in
questi anni abbiamo fatto molte cose insieme, ma c’è
una sorta di non detto fra noi, ovvero la difficoltà
di ragionare a mente aperta su ciò che è accaduto
nella prima metà degli anni ’90. Ecco, di questo
vogliamo parlare con voi. Così abbiamo proposto loro
un percorso pluriennale che spaziava dalla lettura del
‘900 ai temi del conflitto e della colpa, passando
attraverso la “banalità del male” di Hannah Arendt e
la “sbornia collettiva” di cui ci ha parlato Rada
Ivekovic nel suo splendido saggio “Autopsia dei
Balcani”.

Un capitolo specifico di questo percorso è l’Europa.
In prossimità delle elezioni per il rinnovo del
Parlamento europeo, ho proposto al Forum Civico di
svolgere delle elezioni simboliche dove sulla scheda,
al posto dei simboli dei partiti, ci fosse la scritta
“Anch’io sono cittadino europeo”.

Il nodo dell’Europa per il futuro di questa regione
credo sia decisivo, tant’è che come Osservatorio sui
Balcani ne abbiamo fatto uno dei tratti distintivi
della nostra ricerca ed iniziativa politica. Pensiamo
al manifesto “L’Europa oltre i confini” presentato a
Sarajevo nel 2002 alla presenza dell’allora Presidente
della Commissione Europea Romano Prodi, pensiamo
all’iniziativa simbolica che ha collegato lungo il
Danubio le città di Vienna e Belgrado nel 2003.

La proposta è stata condivisa e la mobilitazione è
stata davvero significativa, se pensiamo che tutte le
circoscrizioni elettorali si sono aperte nei due
giorni che si votava nel resto d’Europa, raccogliendo
quasi settemila schede che verranno consegnate nel
prossimo autunno ai responsabili delle istituzioni
europee nel corso di un viaggio di studio che porterà
il Forum Civico a Strasburgo e a Bruxelles.

Pensare che nei nostri paesi il voto per il rinnovo
del Parlamento Europeo (per non parlare della
consultazione per l’adesione alla nuova Europa) ha
avuto ed avrà percentuali di partecipazione irrisori e
che una cittadina della martoriata Bosnia decida di
andare a votare per manifestare il proprio senso di
appartenenza europea, credo possa ben rappresentare il
paradosso di un continente ancora ben lontano
dall’Europa federalista che avevano in mente i padri
fondatori.









		
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