(Fwd) N.E. Balcani #667 - Serbia-Montenegro



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N.E. BALCANI #667 - SERBIA/MONTENEGRO
12 maggio 2003


UN PRIMO BILANCIO DELLO STATO DI EMERGENZA IN SERBIA
di Andrea Ferrario

Con lo stato di emergenza la DOS ha definitivamente suggellato la 
linea politica intrapresa il 6 ottobre 2000, il giorno dopo la caduta 
di Milosevic: quella di rinunciare alla spinta popolare e democratica 
dell'opposizione generale al precedente regime, preferendole una 
politica di potere oligarchica

L'introduzione dello stato di emergenza in Serbia, avvenuta poche ore 
dopo l'uccisione del premier Djindjic il 12 marzo scorso, è stata 
accolta con grande favore sia dalla popolazione in generale, sia dai 
media, dai sindacati, dalle organizzazioni non governative. Nelle 
prime settimane, le uniche voci contrarie sono state quelle dei 
partiti di opposizione (DSS, SRS, SPS e altri minori), in larga parte 
censurate dai media statali o indipendenti. Solo in un secondo tempo 
svariati giornalisti e testate che in un primo tempo avevano 
sostenuto incondizionatamente la proclamazione dello stato di 
emergenza, hanno cominciato ad assumere una posizione maggiormente 
critica.

In "Notizie Est - Balcani" abbiamo cercato di proporre una serie di 
materiali che fornissero una prospettiva diversa da quella dei media 
italiani e internazionali, che hanno dipinto un'immagine univocamente 
positiva della linea adottata dal governo di Belgrado. Complice anche 
la contemporanea guerra in Iraq, la svolta in Serbia è stata nei 
fatti presentata affrettatamente come una positiva chiusura dei conti 
con il pesante passato di questo paese. Cercheremo pertanto di fare 
un primo bilancio a caldo, in parte necessariamente frammentario, su 
quanto è avvenuto in Serbia dal 12 marzo, rimandando per un'analisi 
più approfondita a quanto scritto da Luka Zanoni in "Notizie Est - 
Balcani" del 10 aprile scorso (http://www.notizie-
est.com/article.php?art_id=756). Per un esame dettagliato della 
Serbia prima dell'omicidio Djindjic rimandiamo al dettagliato 
rapporto del Comitato Helsinki sulla Serbia nel 2002, intitolato 
"Human Rights in The Shadow of Nationalism" 
(http://www.helsinki.org.yu/report.php?lang=en).

LE TRE FASI DELLO STATO DI EMERGENZA

A distanza di due mesi dalla sua introduzione, si possono individuare 
approssimativamente tre fasi nell'applicazione dello stato di 
emergenza:

Prima fase - E' quella che va dal 12 marzo al 24 marzo circa. Vengono 
introdotte le misure speciali, sui media cala una pesante censura 
(RTS, la televisione di stato) e autocensura (i media stampati). La 
DOS si presenta unita, sicura di sé. Il governo afferma di avere 
individuato gli organizzatori dell'attentato a sole pochissime ore 
dall'uccisione di Djindjic. Sul piano pratico, parte l'operazione di 
polizia denominata "Sciabola" e si assiste ad azioni spettacolari, 
come la distruzione di edifici di proprietà del mafioso Spasojevic o 
l'arresto della cantante pop-folk Ceca, ma di rilevanza pressoché 
nulla per le indagini: l'impressione è quella di operazioni puramente 
di facciata. Tra il 18 e il 21 marzo viene condotta un'indiscriminata 
operazione di epurazione tra i giudici, che si avvale di un misto di 
metodi legali e minacce, prendendo di mira sia personaggi corrotti 
(nella maggior parte dei casi nominati però dallo stesso attuale 
governo) sia altri che non sono ricollegabili alla criminalità. 
Vengono chiuse due testate scandalistiche, "Nacional" e "Identitet", 
probabilmente legate alla mafia, viene vietata la distribuzione del 
quotidiano montenegrino "Dan".

Seconda fase - Compresa all'incirca tra il 25 marzo e il 7 aprile. Le 
azioni della polizia serba fanno un salto di qualità e comincia una 
serie di eventi clamorosi. Il 25 marzo viene arrestato il presunto 
esecutore dell'attentato a Djindjic, un uomo delle unità speciali JSO 
("berretti rossi"). Seguono arresti di altri uomini delle JSO, ivi 
incluso il loro attuale comandante, e le unità vengono sciolte. Il 27 
marzo la polizia uccide Dusan Spasojevic e Mile Lukovic, capi del 
clan di Zemun (a tutt'oggi le uniche due persone uccise nell'azione 
contro la criminalità organizzata). Nei giorni successivi viene 
ritrovato il corpo di Ivan Stambolic, rapito nel 2000, e vengono 
arrestati alti funzionari dei servizi segreti, noti mafiosi, l'ex 
direttore della televisione di stato Milanovic, il generale Pavkovic. 
Viene confermata l'incarcerazione di due pezzi grossi come l'ex capo 
dei servizi segreti Stanisic e dell'ex capo delle JSO, Frenki 
Simatovic, entrambi sottoposti a fermo nella prima fase. Il 30 marzo 
il governo incassa il successo di una visita a Belgrado di Powell, 
che gli dà il pieno sostegno degli USA. Si comincia a discutere della 
possibilità di vietare alcuni partiti, di reintrodurre la pena di 
morte e di creare una commissione che indaghi sul "clima di 
linciaggio" creato dai media nei confronti del governo: sono i 
prodromi alla svolta politica della terza fase.

Terza fase - Dal 7 al 22 aprile. Il 7 aprile vengono arrestati due ex 
consiglieri di Kostunica. Contemporaneamente, il governo rende 
pubblica la propria spiegazione dell'attentato: si sarebbe trattato 
di una congiura che coinvolgeva criminalità organizzata, vertici 
militari, servizi segreti, partiti di opposizione. Tra questi ultimi, 
nel mirino è in particolare il DSS, insieme ai radicali di Seselj. 
Nei giorni successivi svariati esponenti di governo accusano 
apertamente Kostunica di essere tra gli ispiratori dell'uccisione di 
Djindjic. Il premier Zivkovic lancia pesanti accuse al governatore 
della Banca Nazionale, Mladjan Dinkic, uno dei leader del G-17, 
accusandolo di stampare denaro falso. Leader della DOS cominciano a 
lanciarsi reciproche accuse di collusione con la mafia e i criminali 
(in particolare Covic, Jovanovic e Canak). Si decide che la nuova 
Costituzione della Serbia verrà approvata senza la possibilità di 
discutere e proporre modifiche. Vengono approvati gli emendamenti 
alla legge sulla lotta contro la criminalità, nei fatti un 
prolungamento a tempo indeterminato dello stato di emergenza. I media 
e le ONG avanzano le prime forti accuse sugli abusi del governo, in 
prima fila il Fondo per il Diritto Umanitario, rompendo il clima di 
unanimismo durato quasi un mese. Vari esponenti di governo affermano 
che ora sarà possibile tenere in Serbia, e non all'Aia, molti dei 
processi per crimini di guerra. Vi sono però anche sviluppi di segno 
diverso: rientra, almeno parzialmente, il progetto di creare una 
commissione di indagine sui media e viene votato un emendamento alla 
legge sulla collaborazione con il Tribunale dell'Aia, in base al 
quale sarà possibile consegnare al tribunale internazionale anche 
persone incriminate dopo l'approvazione della legge stessa.

Dopo un breve dibattito sulla possibilità di mantenere alcune misure 
speciali per un periodo indefinito, lo stato di emergenza viene 
revocato il 22 aprile, dopo 42 giorni.


IL CONTESTO IN CUI E' AVVENUTA L'UCCISIONE DI DJINDJIC

L'uccisione di Djindjic è avvenuta in un momento del tutto 
particolare. Innanzitutto, mai si era avuto un tale vuoto di potere 
nel paese: la Serbia non aveva (e non ha ancora oggi) un presidente 
della repubblica, era in corso la transizione dalla federazione 
jugoslava all'unione Serbia-Montenegro, unione che non aveva ancora 
un governo. A livello internazionale, era ormai chiaro che la guerra 
contro l'Iraq sarebbe cominciata a giorni. In generale, nel momento 
in cui è stato ucciso, Djindjic era arrivato a concentrare nelle sue 
mani, con metodi sbrigativi, un enorme potere. La DOS disponeva di 
una maggioranza di governo ottenuta con una specie di putsch 
parlamentare e che il sostegno popolare di cui godeva (lo stesso vale 
per il premier Djindjic) era bassissimo, inferiore al 20%. La facente 
funzione di presidente, Natasa Micic, era stata eletta alla carica di 
presidente della camera con procedura irregolare. Era però in caduta 
anche la popolarità di Kostunica, dopo il fallimento della sua 
elezione a presidente, così come in generale quella dell'opposizione. 
Il Partito Radicale Serbo (SRS) era rimasto privo del suo leader, 
Seselj, consegnatosi all'Aia. In svariate grandi aziende in corso di 
ristrutturazione si stavano svolgendo scioperi molto partecipati, 
alcuni anche con incidenti. Dall'estate precedente, infine, era in 
atto una vera e propria guerra tra le due principali fazioni mafiose 
serbe, quella di Surcin (che i media indicavano come legata al 
governo) e quella di Zemun (che i media ricollegavano alla lobby dei 
criminali di guerra e all'opposizione). Tra fine gennaio e inizio 
febbraio tale guerra, che in una spirale di attentati vedeva perdente 
la fazione di Surcin, aveva preso la forma di virulente accuse 
reciproche lanciate attraverso lettere aperte ripubblicate dai media. 
In particolare, una lettera del capo del clan di Surcin, Buha, 
accusava la fazione di Zemun di essere responsabile di tutti i 
principali crimini mafiosi e politici degli ultimi anni.

L'OMICIDIO, LE INDAGINI

Poche ore dopo l'uccisione di Djindjic, il governo conosceva già i 
colpevoli. Una prima versione ufficiale, resa pubblica con grande 
enfasi, diceva che l'omicido era dovuto al fatto che quella mattina 
dovevano essere emessi mandati di cattura contro i principali capi 
della criminalità organizzata, che avrebbero quindi prevenuto tale 
sviluppo uccidendo il premier. Tale versione, comunque non 
verificabile, è stata tacitamente ritirata dal governo nei giorni 
successivi e sostituita con quella di una megacongiura in atto fin 
dal novembre 2002 e che avrebbe visto cinque precedenti tentativi 
falliti di uccidere Djindjic. Secondo i dati ufficiali delle autorità 
sono oltre 10.000 le persone arrestate durante lo stato di emergenza. 
Di queste, circa 4.500 si trovano ancora in carcere. Le 
incriminazioni emesse sono 3.700 e riguardano 15 omicidi, 8 rapimenti 
e 200 casi di narcotraffico. Tutte le informazioni di cui si dispone 
sugli arresti, sui moventi degli omicidi e di altri crimini, nonché 
sull'andamento delle indagini stesse provengono dai briefing del 
governo, riportati dai media in forma pressoché immutata. Non vi è 
alcuna possibilità di verificarle indipendentemente, possibilità che 
si aprirà probabilmente solo tra molto tempo, non prima dell'autunno 
di quest'anno, quando cominceranno i primi processi, secondo quanto 
ha dichiarato il ministro della giustizia Batic.

Il "successo" della Operazione Sciabola, che è andata molto più in là 
delle indagini sull'uccisione di Djindjic, consiste soprattutto 
nell'arresto di personalità finora intoccabili (da Stanisic, a 
Pavkovic, ad Aco Tomic). Tuttavia, proprio per questi personaggi 
rimane il fatto che non vi sono elementi per giudicare la coerenza 
delle incriminazioni contro di loro, sempre che siano incriminati. 
Non vi sono ancora garanzie, allo stato attuale, che risponderanno 
effettivamente dei loro crimini e, in particolare, di tutti i loro 
crimini e non solo di quelli politicamente più neutri dal punto di 
vista del governo. Le indagini, inoltre, hanno trascurato i vincoli 
tra la criminalità e il governo, fino alla mattina del 12 marzo 
denunciati da tutti i media indipendenti.

Ma le indagini hanno registrato anche un fondamentale e macroscopico 
insuccesso. I tre principali indiziati, infatti, non rispondono 
all'appello. Non è un particolare secondario, perché si tratta delle 
persone che avrebbero potuto fornire le testimonianze più clamorose. 
Due di essi, Dusan Spasojevic e Mile Lukic, capi del clan di Zemun, 
sono stati uccisi dalla polizia e vi sono fondati sospetti che la 
cosa non sia stata casuale. L'"accusato degli accusati", Milorad 
Lukovic, non è mai stato trovato e, dalla seconda fase dello stato di 
emergenza in avanti, le autorità non lo menzionano più se non 
incidentalmente. Tutte e tre queste persone hanno avuto per anni 
contatti con le istituzioni, originariamente più con l'attuale 
governo che con l'opposizione, e vista la loro posizione avrebbero 
potuto rendere testimonianze fondamentali, ma forse scomode. Rimane 
ancora non chiarito perché Djindjic, dopo un precedente sospetto 
tentativo di attentato, fosse stato così vulnerabile e la sua scorta 
così impreparata.

LE REAZIONI INTERNAZIONALI

Le reazioni internazionali all'introduzione dello stato di emergenza 
sono state univocamente positive. La mossa è stata salutata dai 
principali soggetti internazionali con una gamma di reazioni compresa 
tra la "comprensione" e l'"entusiasmo", sempre accompagnate dal 
"pieno sostegno" al governo. Altro fattore comune a tutte le reazioni 
internazionali è stata la richiesta che lo stato di emergenza avesse 
una durata limitata. Dall'UE e dall'OSCE il governo Zivkovic ha 
incassato un pieno sostegno, nonché lo stanziamento di ulteriori 
fondi, molto ingenti, da parte della prima. Durante lo stato di 
emergenza la Serbia-Montenegro è stata accolta nel Consiglio 
d'Europa. Ma l'appoggio più consistente è venuto dagli USA, 
simboleggiato dalla visita imprevista di Colin Powell a Belgrado il 
30 marzo. In piena guerra all'Iraq, il solo fatto che il segretario 
di stato USA abbia trovato il tempo di fermarsi a Belgrado è stato 
interpretato come un forte sostegno al governo serbo, sostegno reso 
ancora più notevole dalle parole di Powell che si è detto 
letteralmente "entusiasta" del modo in cui le autorità di Belgrado 
stavano affrontando la situazione. La visita di Powell è stata 
seguita dal viaggio di una delegazione serba a Washington, dove sono 
stati stabiliti contatti importanti a livello economico. Durante lo 
stato di emergenza, inoltre, la US Steel ha acquistato l'acciaieria 
serba Sartid e sono stati avviati altri importanti contatti tra i due 
paesi nel settore del business, in particolare nell'industria degli 
armamenti e del turismo. Sono state positive anche le reazioni di 
tutti i paesi vicini e, in particolare, il Montenegro ha dato un 
completo sostegno alla linea adottata da Belgrado. Per quanto 
riguarda gli effetti indiretti sui paesi vicini, il governo croato si 
è chiaramente trovato in una situazione un po' sgradevole a livello 
di immagine, visto che il governo serbo è riuscito a presentarsi come 
il paladino della lotta alla criminalità nella regione, facendo 
apparire d'un colpo la Croazia come un paese molto più arretrato, 
proprio nel momento, tra l'altro, in cui Zagabria ha già notevoli 
problemi con Washington in seguito al rifiuto di appoggiare la guerra 
contro l'Iraq. In Bulgaria si è fatto sentire il capo della polizia 
Bojko Borisov, chiedendo l'adozione di misure speciali come in Serbia 
e proponendosi, con una serie di mosse, come potenziale leader 
politico in grado di applicare un pugno di ferro nel paese.

PERCHE' IL GOVERNO SERBO NON E' CREDIBILE

L'elemento ultimo che toglie ogni sostanza alla versione secondo cui 
la ferma reazione all'omicidio di Djindjic costituirebbe una vera e 
proprio svolta è l'assoluta mancanza di credibilità degli attuali 
vertici serbi, sia per quanto riguarda la lotta alla criminalità, sia 
per la capacità di fare i conti con il passato e avviare la Serbia 
verso un'autentica democrazia. Riguardo a Zivkovic e Mihajlovic, 
rispettivamente premier e ministro degli interni, abbiamo già 
esaminato il recentissimo caso dello scandalo Jugoimport [N.E. 
Balcani n. 645 del 22 marzo: http://www.notizie-
est.com/article.php?art_id=747], che li ha visti tra i principali 
attori di un traffico illegale di armi e contemporaneamente di 
insabbiatori dello stesso scandalo. Entrambi hanno dimostrato, non 
per breve tempo, ma lungo i più di due anni passati ai vertici dei 
ministeri degli interni rispettivamente federale e serbo, di non 
volere fare nulla contro i responsabili di crimini ("organizzati" o 
di guerra che siano). Entrambi sono (o sono stati fino al 12 marzo) 
businessmen e dirigenti aziendali di imprese coinvolte in attività 
illegali e frodi. Il secondo, in più, è stato per anni un esponente 
di spicco del regime di Milosevic. Il principale responsabile 
operativo dell'azione Sciabola contro gli accusati dell'omicidio di 
Djindjic e la criminalità organizzata è Sreten Lukic, capo della 
polizia, che nel 1999 è stato ai vertici della polizia serba del 
Kosovo e come tale è da ritenersi uno dei principali responsabili dei 
massacri e delle distruzioni compiutivi. Zivkovic, Mihajlovic e 
Lukic, visti i loro ruoli, sono inoltre da ritenersi i primi 
responsabili dell'insabbiamento delle indagini sulle fosse comuni di 
albanesi rinvenute in Serbia nel 2001. Il capo di stato maggiore 
dell'esercito, Branko Krga, è stato consigliere di Milosevic per la 
sicurezza nel fatidico 1999. Come se non bastasse, in pieno stato di 
emergenza è stato nominato ai vertici dei servizi segreti militari 
Momir Stojanovic, a suo tempo uno dei nomi inseriti nella lista dei 
sospettati di crimini di guerra ai quali era vietata l'entrata 
nell'UE, accusato nei dettagli da testimoni e ONG come il Fondo per 
il Diritto Umanitario di avere disposto il massacro a freddo di circa 
100 civili in Kosovo nel 1999: una chiara dimostrazione di come il 
nuovo governo non abbia alcuna intenzione di fare i conti con il 
passato. E sono solo i nomi più importanti, dietro ai quali vi è un 
folto sottobosco di criminali e uomini del regime di Milosevic, 
soprattutto nella polizia, nell'esercito e nel mondo del business, 
uomini che la DOS non ha mai voluto toccare, non per paura delle 
conseguenze, ma più semplicemente perché erano "colleghi" necessari 
alla sopravvivenza della propria macchina di potere. Lo stesso Legija 
ha goduto di una lunga immunità grazie alla DOS, anche dopo la 
rivolta dei "berretti rossi" o dopo le accuse circostanziate sul suo 
ruolo nell'attentato a Vuk Draskovic, nel quale hanno perso la vita 
quattro persone. Tralasciando qui le accuse sui legami tra Djindjic e 
la mafia del tabacco, che non sono mai state accompagnate da prove 
precise, vale la pena invece di citare i legami con la "mafia 
dell'asfalto", che grazie ad appalti statali concessi senza concorsi 
ha creato un giro d'affari miliardario per mafiosi come Ljubisa Buha, 
vicino alla DOS, capo del clan di Surcin e oggi principale accusatore 
(protetto dalla polizia serba) del clan di Zemun. Fino a poco tempo 
fa denunciare questi fatti in Serbia era molto pericoloso, come ben 
sa il coraggioso giornalista Zeljko Cvijanovic, esposto per questo 
alle minacce esplicite dei mafiosi vicini al governo di Djindjic e a 
quelle di un fedelissimo di quest'ultimo, il "censore" Vladimir 
Popovic Beba, capo dell'ufficio informazione del governo serbo. 
Popovic, dopo essere stato temporaneamente sospeso dal suo incarico 
con modalità non chiare, è l'uomo che ha organizzato i briefing del 
governo durante lo stato di emergenza, l'unica fonte di informazione 
che i giornali potevano riportare sulle loro pagine, vista la censura 
in atto, e si è subito distinto per avere minacciato di pesanti 
conseguenze fisiche una giornalista e la sua famiglia per avere posto 
delle domande politicamente scomode.

Va menzionata anche la politica disinvoltamente autoritaria del DS di 
Djindjic, in particolare in relazione alla conquista della 
maggioranza parlamentare, nel giugno scorso, con metodi assolutamente 
non democratici, tramite la revoca pretestuosa dei mandati di 
deputati dell'opposizione e il blocco, seguito dall'addomesticamento, 
della Corte costituzionale che avrebbe dovuto giudicare la legalità 
di tali misure. Lo stesso vale per la nomina della presidentessa del 
parlamento, svolgente la funzione di presidente della repubblica ad 
interim, un personaggio di secondo piano che tuttavia si è dimostrata 
fondamentale per indire lo stato di emergenza. E non bisogna 
dimenticare, tornando indietro nel tempo, il modo in cui la DOS ha 
espropriato le proteste dei lavoratori imponendo d'autorità propri 
membri ai vertici delle maggiori aziende del paese, posizioni che 
nella maggior parte dei casi occupano ancora oggi. Dopo la morte 
Djindjic è stato "beatificato", sia in patria che all'estero, 
stendendo un velo pietoso sugli aspetti deleteri del suo governo, un 
escamotage che permette ai suoi compagni di partito di lavare con un 
solo colpo di spugna la propria mancanza di credibilità, la propria 
illegittimità e le proprie collusioni, tutti fattori che, non a caso, 
avevano fatto del DS e dei suoi satelliti, così come di Djindjic 
personalmente, personaggi estremamente impopolari tra i serbi fino 
alla mattina del 12 marzo.

L'OPPOSIZIONE

Due parole anche sull'opposizione, che dopo l'omicidio di Djindjic ha 
fatto un balzo indietro nei sondaggi e si trova sempre più ai margini 
della vita politica. E' forse questo l'unico effetto positivo dei 
recenti eventi in Serbia. Radicali e socialisti sono sempre più 
ridotti al lumicino, entrambi con in più l'assenza dei rispettivi 
leader, che si trovano all'Aia. Il DSS di Kostunica ha perso 
ulteriormente credibilità, dopo che la popolarità del "nazionalista 
moderato" era già stata fortemente intaccata dalla mancata elezione a 
presidente della Serbia. I suoi legami con criminali di ogni tipo, 
legami già noti in passato così come lo erano quelli di Djindjic, 
sono ora stati portati apertamente sulla scena, smascherando la sua 
figura di "nazionalista moderato". Proponendo dopo l'attentato un 
governo di unità nazionale, formula ambigua che non si è mai compreso 
se dovesse includere o meno i radicali e i socialisti, il DSS ha dato 
prova di essere un partito il cui "legalismo" è solo una foglia di 
fico per coprire una concezione del potere mafiosa e la mancanza di 
una propria base popolare da mobilitare. L'unica arma di cui può 
disporre il DSS oggi è semplicemente una retorica nazionale e 
"legalista", ma è un'arma assai debole di fronte all'unità nazionale 
e al "patriottismo liberista" della DOS del dopo-Djindjic. Tuttavia 
non è da escludersi che a medio o breve termine il DSS non riesca a 
ottenere una rivincita, e questo per un semplice motivo: l'attuale 
svolta di Belgrado è una farsa, che con il passare del tempo si 
logorerà e, se la DOS non sceglierà, o non sarà in grado di mettere 
in atto, metodi direttamente repressivi, potrebbe aprire un vuoto 
politico che il DSS potrebbe riempire.

CONCLUSIONE

Oggi, a sole tre settimane dalla sua fine, gli esiti dello stato di 
emergenza si sono notevolmente "sgonfiati". Ai vertici del governo, 
nessuno parla più di indagare sui nessi tra criminalità e politica: 
passata la sbornia dello show mediatico imbastito durante lo stato di 
emergenza, a tutti è chiaro che ogni indagine seria in tale direzione 
porterebbe il governo a indagare anche su se stesso. Tutto quindi si 
riduce alla criminalità organizzata classica, quella del 
narcotraffico e del contrabbando. Con il consueto timing politico, 
nei giorni scorsi il Tribunale dell'Aia ha provveduto a incriminare 
Jovica Stanisic e Frenki Simatovic, i quali gli verranno consegnati 
al più presto da Belgrado, che potrà così spedire a migliaia di 
chilometri di distanza due imbarazzanti testimoni. Dopo l'azione di 
polizia, le indagini della magistratura devono ancora cominciare; i 
processi, se ci saranno, si svolgeranno tra svariati mesi. Di molti 
arrestati non si sa nemmeno di cosa precisamente siano accusati 
(Stanisic e Simatovic, per esempio, non sono stati incriminati in 
Serbia). Ci sono poi casi come quello di Mira Markovic, moglie di 
Milosevic, di cui il governo ha annunciato l'incriminazione dopo che 
è stato ritrovato il cadavere di Ivan Stambolic, rapito e ucciso 
nell'estate 2000: si è scoperto che Markovic in realtà non è affatto 
accusata di questo omicidio, bensì di avere favorito l'assegnazione 
indebita di un appartamento statale a propri protetti! Uno degli 
arresti più clamorosi, quello di Milorad Vucelic, personaggio di 
spicco del regime di Milosevic, si è risolto in sordina con la sua 
liberazione: era solo un testimone. Un bilancio davvero magro per 
quella che era stata definita da molti una rivoluzione.

La nostra interpretazione è che la svolta del dopo-Djindjic, resa 
possibile dall'introduzione dello stato di emergenza, sia solo una 
trasformazione, e non un cambiamento. Le strutture di controllo della 
società e dell'economia rimangono immutate. Nessuna indagine è stata 
compiuta o avviata su privatizzazioni, appalti, provenienza dei 
grandi capitali, finanziamento dei partiti. Gli organi di polizia e i 
vertici del ministero degli interni non sono stati toccati. 
Nell'esercito sono stati incriminati solo alcuni singoli personaggi. 
L'unico risultato consistente delle indagini è stato quello di 
eliminare dalla scena pubblica una parte della criminalità più 
visibile, quella che i suoi regolamenti dei conti li faceva con il 
mitra per la strada. Era una criminalità che dava del paese 
un'immagine imbarazzante a livello internazionale e che causava 
disordine internamente. Una criminalità che ormai poteva essere 
licenziata perché aveva esaurito il proprio compito, quello di 
consentire un'accumulazione primaria del capitale nel paese e, allo 
stesso tempo, di fare da esercito/polizia per un potere privo di base 
popolare ed estremamente insicuro e instabile. Come avevano 
denunciato alcuni osservatori serbi, tra gli svariati obiettivi della 
politica di Djindjic e del suo partito, il DS, vi sarebbe stato 
proprio quello di consentire ai capitali mafiosi di legalizzarsi 
attraverso investimenti, privatizzazioni e appalti. In questo non vi 
è nulla di strano, è un processo che, seppure in maniera meno 
drammatica, è stato messo in atto in quasi tutti i paesi vicini. 
L'esempio della Bulgaria è a tale proposito istruttivo, perché in 
questo paese gli avvenimenti più recenti, come l'uccisione del 
businessman Ilija Pavlov o altre uccisioni "eccellenti", dimostrano 
che tale processo non garantisce nemmeno la fine dei regolamenti di 
conti per strada.

A livello più prettamente politico, lo stato di emergenza, che pure 
non è sfociato in un governo autoritario, ha creato un pericoloso 
precedente. Ha dimostrato che i media, le ONG e la cosiddetta società 
civile sono 
all'occasione pronti ad accettare all'unisono l'introduzione di 
misure 
autoritarie e la sospensione della democrazia, tacendo sulle 
responsabilità 
dello stesso regime. Ha dimostrato che con la scusa dell'emergenza i 
sindacati 
possono diventare una cinghia di trasmissione pronta a mettere a 
tacere le 
lotte sociali. Facendo del tema della lotta poliziesca contro la 
criminalità 
l'elemento decisivo per una presunta svolta del paese, il governo ha 
incassato 
una depoliticizzazione della società e una passivizzazione della 
popolazione. 
Le approvazioni univoche ottenute a livello internazionale fanno 
inoltre dello 
stato di emergenza in Serbia un pericoloso modello applicabile 
all'occasione, 
con varianti locali, in altri paesi dei Balcani. 

Con lo stato di emergenza la DOS ha definitivamente suggellato la 
linea 
politica intrapresa il 6 ottobre 2000, il giorno dopo la caduta di 
Milosevic: 
quella di rinunciare alla spinta popolare e democratica 
dell'opposizione 
generale al precedente regime, preferendole una politica di potere 
oligarchica. 
In questo senso, e solo in questo senso, gli eventi degli ultimi due 
mesi sono 
un "6 ottobre" e, più precisamente, una ripetizione del 6 ottobre.

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