La situazione in Jugoslavia... (1)



... al di la' della censura dei media e della campagna fobico-ossessiva
contro Milosevic:

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Subject: Mariella Cataldo - Appunti di viaggio della
delegazione dell'associazione Most za Beograd (6)
   Date: Sun, 2 Dec 2001 23:47:03 +0100
   From: "most za Beograd" <most.za.beograd at libero.it>

Most za Beograd - Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava 

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Mariella Cataldo

Le foglie morte di Belgrado

Appunti di viaggio della delegazione dell'associazione 
Most za Beograd 

         31 ottobre 2001. Alle 12 e 45 saluto Belgrado mentre
sorvolo i suoi campi rigati dalle coltivazioni triennali o
quadriennali. All'aeroporto ci attende l'autista del pullmino
della Zastava che ci porterà a Kragujevac attraverso
un'autostrada rappezzata. Lungo tutto il percorso, Claudio, il
medico di Napoli che ha "adottato" ben quattro bambini, rivela
insospettabili capacità di intavolare con l'autista, in un
serbo-napoletano vocal-gestuale, una conversazione che trova il
suo acme nella comune conoscenza - a me e ad Andrea, ahimé,
ignota - dei nomi dei calciatori delle squadre di calcio
italiane, a partire, va da sé, da quelli jugoslavi. Paola
sembra invece intenta ad evitare che il prezioso dono - un
computer portatile! - che la sua amica Brigitta le ha affidato
per la quattordicenne Jasna subisca eccessivi contraccolpi di
qualche buca impietosa.

Mentre circumnavighiamo la periferia di Belgrado coi suoi
palazzi di cemento, tra cui si intravede qualche cupola a
cipolla, lungo la strada ci salutano tante casette bianche in
prati verdi e tante foglie gialle di tiglio e aceri in un
agonizzante autunno balcanico.

Quando varchiamo il portoncino della sede del sindacato
Samostalni, ci accolgono un pesante odore di fritto dal
ristorante sottostante ed una raggiante Rajka, e Srba, giovane
segretario del sindacato e poi l'esuberante Milja, che è stata
licenziata e collabora ora al progetto di adozioni a distanza
come volontaria Ci sembra di tornare a casa! Saluti, abbracci,
feste. Un bicchierino di rakija e anche due, per festeggiare
l'incontro con vecchi amici. Bisogna mettere a punto subito il
programma, intensissimo, degli incontri di questi giorni, e
preparare la busta con i soldi per ognuna delle 215 famiglie.
Andrea è ben lieto di liberarsi dei 31.900 marchi che gli
gonfiavano le tasche, Srba e Claudio vanno in banca a cambiare
i biglietti da 1000 marchi in tagli più piccoli, mentre noi
rimaniamo a parlare con Rajka, che ci racconta di cose che
purtroppo in gran parte conosciamo già: 15.000 lavoratori
licenziati, nessuna seria prospettiva di ripresa della
produzione, la Zastava scorporata in diverse imprese per minare
la compattezza dei lavoratori, che, nonostante tutto, in tutta
la Serbia hanno scioperato il 18 ottobre contro la "Carta del
lavoro" proposta dal nuovo governo che prevede "libertà di
licenziamento"... 

Oggi, 31 ottobre, comincia per i bambini serbi la veronauka
(l'insegnamento della religione serbo-ortodossa nelle scuole)
con cui il "laico" Djindjic ha voluto bruciare sul tempo il
"religioso" Kostunica. Segno dei nuovi tempi - e nuovo non
sempre vuol dire migliore: nella Jugoslavia di Tito e nella
"piccola Jugoslavia" (Serbia e Montenegro) governata dai
socialisti (fino al 5 ottobre 2000) la scuola era laica, a
garanzia della multietnicità e convivenza con pari dignità di
tutti i popoli che abitavano questo paese.

 Nel Parco della memoria - dedicato alla terribile esecuzione
nazista di 7000 persone in un sol giorno - mi sveglia all'alba
una folata di vento tra gli alberi; danzano per l'aria in una
sinfonia d'autunno centinaia di foglie morte come grandi
fiocchi di neve gialla ed io rimango incantata a respirare a
pieni polmoni l'aria del mio "ritorno a casa", con la finestra
aperta a due gradi sottozero.

 Con Srba attraversiamo il quartiere zigano con casette e
appartamenti e orticelli di crisantemi; Paola intravede anche i
caprioli. Qui, gli zigani sono perfettamente integrati nella
società e non sono emarginati come da noi. Tante vecchie
"Seicento" (che la Zastava costruiva sul modello FIAT). La
televisione è sempre accesa, anche a casa di Dusan, dove il
papà, che non ha voluto tagliare l'albero di fico per sistemare
la casa, ci dice: "La vita è come se si fosse fermata dieci
anni fa, ora la nostra vita ce la mangiamo così, la sprechiamo,
cercando di arrangiarci per sopravvivere, ma questa non è vita,
non è la vita alla quale pure abbiamo diritto".

 Dalibor, uno dei bambini adottati a distanza da Claudio, è
figlio di profughi. Nella stanza fa caldo, con la cucina a
legna già accesa (ci viene forte il sospetto che sia così in
attesa di freddolosi ospiti italiani). Il papà ci racconta la
sua fuga dal Kosovo. Lì ben prima del '99, in molte zone, la
vita per i serbi era diventata invivibile. In Kosovo era
importante conoscere la lingua albanese, ma lui non la
conosceva e non ha saputo mimetizzarsi ed è dovuto scappare.
Scappò con il trattore, senza armi, nel '92. Poco dopo ritornò
per riprendersi alcune cose che aveva lasciato nella sua casa e
portare anche suo zio fuori dal Kosovo. Si nascose sotto il
trattore quando attraversò una strada disabitata e sentì gli
spari. Riuscì a riprendere il frigorifero, un po' di farina, ma
lasciò lì tutte le provviste dell'inverno: fagioli, carote, e
le mucche. Dopo la guerra del '99, la terribile "guerra
umanitaria" della NATO, provò forte il desiderio di rivedere,
senza fermarsi, il luogo dov'era la sua casa. Lo accompagnarono
gli uomini della KFOR. Non c'era traccia di casa, c'era solo la
terra spianata. Aveva un bosco che valeva 10.000 marchi e che
suo nonno voleva tenere per il matrimonio di Dalibor; ora hanno
perso tutto. Ora, a chi potrà far vedere le carte della
proprietà?

 Pranzo a casa di Maja, con il pesce e i dolci leggerissimi
della festa di San Luca: nonna splendida, la piccola Milica, la
cuginetta di Maja, dispettosa e desiderosa di essere al centro
dell'attenzione, la nuora Bilja in attesa di un fratellino per
Milica, assorta, in silenzio... e poi le dalie rosa per
ringraziarci e il nonno con una grande valigia piena di dolci,
marmellate e rakija, tutto fatto in casa naturalmente. E non si
può dire di no. I serbi accettano il tuo aiuto e ti sono molto
riconoscenti, ma intendono ricambiare, per come possono, per
quel che sanno fare. Accade talvolta che ti regalino un
centrino da tavola fatto a mano, come è tradizione da queste
parti, ore e ore e ore di lavoro sapiente. 

Maja è cresciuta, è alta, è una bella signorina e ci sorride di
un sorriso dolcissimo velato di tristezza. Le sue condizioni
sembrano ora stazionarie, va periodicamente a Belgrado per la
visita oculistica, c'è la speranza - tenue, con tanti forse, se
e ma - che riesca a salvare l'unico occhio che le è rimasto
vivo. Il suo sguardo si illumina quando le prometto che le
comprerò l'abito da sposa, e diventa perplesso quando aggiungo
che il suo sposo dovrà essere bravo, onesto, lavoratore e,
soprattutto, dovrà piacere a nonna Rada. Milja scherza: "Ma è
il ragazzo di Maja o della nonna?"

 I ragazzi spostano a gran fatica un pianoforte a coda nel
liceo di Kragujevac, dove un lontano ma ancora vivo nella
memoria 21 ottobre 1941 furono fucilati 300 liceali e il
professore disse ai suoi carnefici nazisti: "sparate pure, io
continuo la mia lezione". Nelle scuole serbe non esiste un
bidello di professione: gli alunni più grandi, a turno, per un
giorno all'anno svolgono questo compito e Boris, il figlio di
Rajka, non vede l'ora che arrivi il suo turno. 

In serata ci riservano una sorpresa: assisteremo alle prove del
gruppo folcloristico della Zastava. In uno scantinato, che
durante i bombardamenti della nefasta primavera del '99 era
servito da rifugio, bambini e ragazzi - dai tre ai vent'anni,
ci dice con un certo orgoglio l'istruttrice di danza - alcuni
con impaccio, altri con scioltezza e leggiadria , intrecciano
un ballo popolare, accompagnati da un'immancabile fisarmonica e
dalla voce profonda e armoniosa di una giovane cantante. Alle
prove i ragazzi sono vestiti in modo molto semplice e modesto,
non ci sono soldi per comprarsi abiti nuovi, soprattutto ora,
quando 15.000 operai sono stati licenziati. 

Ma anche chi ha avuto la "fortuna" di conservare il lavoro deve
stringere la cinghia oltre il dovuto e oltre l'immaginabile.
Per le strade di Kragujevac le vetrine di negozi desolatamente
deserti espongono in bella mostra scarpe a tre-quattromila
dinari (circa 120.000 lire). Concludiamo che troviamo di meglio
e a minor prezzo nelle vetrine di corso Cavour a Bari. Eccetto,
forse, soltanto il pane, fermo a 20-30 dinari al chilo (600-900
lire), tutto costa quanto da noi, con la differenza che qui i
salari sono sette-otto volte più bassi dei nostri salari più
bassi. Al supermercato, ora che la Serbia di Djindjic si è
aperta all'Occidente, si trovano anche costosissimi dentifrici
"Colgate" e spaghetti "Granoro", che non hanno forse molti
acquirenti. Ma qualsiasi cosa sembra avere ormai "prezzi
occidentali". Chiediamo a uno stupito Srba di accompagnarci in
un negozio di materiale elettrico: anche una semplice lampadina
costa come da noi, 1.500 lire, e rimane fitto il mistero di
come in questo paese riescano ancora a vivere con dignità. 

Ma i ragazzi del gruppo folcloristico danzano, Milija,
accompagnata dalla giovane nuora che parla un ottimo inglese e
le assomiglia come una figlia, non riesce a star ferma e si
inserisce tra loro, la vita continua, nonostante tutto, e
mentre si danza si scaccia la malinconia e non si pensa al
presente. A pensarci troppo si cade in depressione. Sta
crescendo il numero di suicidi. E' la mancanza di prospettive
ad ammazzarti più di ogni altra cosa. Ci diceva Boba, che molto
spesso, da Napoli, telefona ai suoi parenti a Belgrado: "Prima
c'era l'embargo, si stava male, ma c'era la speranza che
finisse e l'economia si riprendesse; c'era la guerra, si stava
peggio, ma la guerra prima o poi sarebbe finita, si stringevano
i denti e si tirava avanti sperando nel futuro. Poi hanno fatto
credere alla gente che le cose andavano male perché c'era
Milosevic; Milosevic ora non c'è, venduto per trenta denari al
tribunale dell'Aja, e la vita è peggiorata molto di più. Ora
non c'è più nulla a cui appigliarsi, non c'è speranza, il
futuro si prospetta più nero del presente...". 

La direttrice del gruppo artistico ci mostra le foto degli
spettacoli e i premi vinti dal gruppo, ne è fiera, spera che
questi bravissimi ragazzi possano essere invitati in Italia.
Per la verità, sarebbero dovuti venire lo scorso anno, a
luglio, nell'ambito di alcune iniziative di solidarietà, ma poi
la cosa sfumò, con grande amarezza e delusione. Paola ci dice
che se ne potrebbe parlare col sindaco di Alberobello,
organizzare uno scambio di gruppi folcloristici. Riceviamo in
dono un libro di poesie e ci accompagnano a visitare il gruppo
di pittura. Milorad, l'insegnante, quando sente che siamo
italiani, ci saluta emozionato, credendo di scorgere sui nostri
visi i cromosomi del grande Leonardo, ma gli spieghiamo che
siamo solo i conterranei incazzati di D'Alema, che ha avallato
la "guerra umanitaria" contro questo popolo che, nonostante
tutto, ricorda l'Italia come terra di artisti e di brava gente,
mai di soldati!

In una stanza poco distante vi sono una dozzina di postazioni
di personal computer, si tengono corsi di riconversione per i
lavoratori, che imparano l'uso di alcuni programmi di base: due
timidi, ma affettuosi scolaretti - Ruzica e George, gli ex
presidente e segretario del sindacato - ci salutano molto
calorosamente. 

 Nella delegazione dell'associazione ci sono due medici, Paola,
neurologa, e Claudio, medico del lavoro; Rajka ci propone di
visitare il presidio sanitario della Zastava. Lì c'è la apoteka
humanitarna, costituita dal sindacato con farmaci donati
dall'estero. Apprendiamo che ora qualsiasi visita o analisi,
che prima per gli operai era gratis, costa 20 dinari di
"participacija": il nuovo governo ha importato dall'Occidente
la moda dei ticket, insieme con quella di abolire i prezzi
politici di luce, gas, affitto di casa. Qui tutto è vecchio di
vent'anni (come la macchina audiometrica e l'apparecchio
mammografico), molte cose sono italiane e niente basta (servono
urgentemente medicine per cardiopatie, come la digitalina).
Mentre visitiamo i reparti (dentistica, oftalmologia,
dermatologia, il gabinetto di spirometria, radiologia, medicina
del lavoro o medicina rada) le infermiere, intorno ad un
tavolo, tagliano garze. Nel reparto di neuropsichiatria (dove
hanno solo l'elettroencefalogramma) un baffuto serbo dà una
pacca sulla spalla ad Andrea (non sappiamo se è un medico, un
paziente, un operaio, un amico). Lo rincontreremo più tardi e
Andrea riceverà un'altra pacca e ricambierà come a un vecchio
amico. L'apparecchio mammografico, di cui sulla parete c'è
anche una vecchia raffigurazione ad olio, è stato portato più
di un anno fa da una delegazione del coordinamento RSU
Lombardia, ma purtroppo non può ancora essere messo in
funzione, manca qualche pezzo che non si riesce a trovare, e
così per fare l'esame mammografico le donne di Kragujevac
devono andare a Belgrado spendendo 150 marchi, praticamente il
salario di un mese.

 In casa di Ivan arriviamo attraversando un ponticello di legno
su un ruscello. La casa è misera, in un prato con un enorme
albero di noci, e l'aria è fina. Il nonno è nero ed è di sangue
zigano. Viene dal Kosovo ed era stampatore alla Zastava. Ha
fatto la Resistenza ed ha partecipato, dopo la guerra, alla
ricostruzione del paese, ha costruito la ferrovia di Sarajevo.
Per accogliere gli ospiti italiani hanno preparato una pagnotta
di pane per noi e poiché erano indaffaratissimi nei
preparativi, hanno lasciato il nonno a guardia del pane nel
forno, ma lui si è addormentato ed il pane è diventato nero
come la sua faccia. Poiché i bambini non mangiano con noi e noi
li invitiamo a farlo, il papà ci rassicura: "da noi prima
mangiano i bambini, poi i vecchi, poi i genitori".

 

Sulla via del ritorno, Rajka ci dice che durante e dopo i
bombardamenti la gente era incazzata ma era in grado di essere
felice o infelice. Ora non è in grado di essere né felice né
infelice, è semplicemente apatica, indifferente, e aggiunge:
"chi restituirà l'infanzia a Boris? È nato nel 1989, quando
cominciava a sbriciolarsi la Jugoslavia ed è vissuto sempre
nella precarietà e nell'insicurezza. Era il suo compleanno quel
24 marzo 1999 quando sono iniziati i bombardamenti". 

 La casa di Jasna è in un villaggio sperduto lontano una
ventina di chilometri da Kragujevac - se ne vanno almeno una
quarantina di minuti per arrivarci. In un cortile con pavoni,
galline, tacchini e una gatta incinta, un nonno sanguigno ci
saluta dicendo: "Io sono jugoslavo!". Noi rispondiamo che siamo
internazionalisti. Il nonno si commuove quando racconta la
storia di un italiano che si rifugiò nella sua casa durante la
seconda guerra mondiale (come accadde a tanti altri, scampati
al bombardamento americano del campo di prigionia tedesco di
Zemun, alla periferia di Belgrado), quando lui aveva cinque
anni e il papà era fuori in guerra. L'italiano mangiava
peperoncini - fortissimi, se sono come quelli che ci hanno
offerto qui - e gli fece un po' da padre, poi ripartì per
l'Italia portandosi nella valigia i semi dei peperoncini, ma
non poté piantarli, perché perì in mare sulla via del ritorno.
Si commuove a sentir parlare italiano. 

Il computer portatile che Brigitta ha regalato a Jasna perché
impari l'inglese è come un mostro sacro che viene aperto con
grandissima circospezione su un tavolinetto del cucinino,
l'unico che abbia a portata di mano una vecchia presa elettrica
in questa piccola casa contadina, dove non c'è acqua corrente e
bisogna usare quella del pozzo, con una pompa a mano; la
"toilette" è fuori casa, in un angolo del cortile, una piccola
cabina di vecchie assi di legno e una porta sgangherata. La
"modernità" sembra irrompere in questa casa a turbare sonni
contadini. La mamma e i nonni di Jasna, che ci hanno preparato
una calorosissima accoglienza (il papà non ha avuto il permesso
di assentarsi dal lavoro), hanno sui visi, stampata, la
consapevolezza della gravità di una "svolta epocale" nella loro
vita. 

 Al primo pomeriggio di venerdì 2 novembre è fissato l'incontro
con le 24 famiglie che la provincia di Napoli, da oltre un anno
e mezzo - da quando i delegati della Zastava giunti in Italia
per una serie di manifestazioni organizzate dalla nostra
associazione e dai compagni della RSU Lombardia ebbero un
incontro con il presidente Lamberti - si era impegnata a
sostenere. Difficoltà burocratiche e continui rinvii avevano
fatto incancrenire la situazione. Per poterla sbloccare, dopo
ripetuti incontri non sempre sereni e pacati, abbiamo dovuto
anticipare personalmente le somme e inviarle ad ogni singola
famiglia con vaglia postale, in attesa del rimborso,
augurandoci che la poco solerte burocrazia napoletana non ci
giochi qualche brutto scherzo... Poiché non ci fidiamo delle
poste, abbiamo portato con noi le copie delle ricevute, ma ci
rendiamo conto che per quelle famiglie che aspettano da tanto
tempo, quel pezzo di carta potrebbe anche apparire una beffa.
Miracolosamente le poste hanno funzionato e oltre la metà -
dopo appena 5 giorni, con uno festivo in mezzo - ha già
incassato la somma; sono venuti tutti a ringraziarci di cuore.
Claudio, emozionatissimo e teso, quasi non proferisce parola.

 Sabato mattina i bambini della Zastava ricevono da noi 31.900
marchi e una montagna di cioccolatini. C'è la televisione
locale e nazionale che ci dedicheranno alcuni minuti di
trasmissione, sottolineando che ci siamo opposti alla guerra
contro il loro paese. Il presidente del sindacato Samostalni,
Radosav Bjeletic, introduce con poche essenziali parole.

Nel mio discorso ricordo di essere stata colpita dalla dignità
conservata da questo popolo nelle ingiuste sofferenze che gli
sono state inflitte; nei pochi giorni trascorsi qui l'anno
passato, il mio cuore era diventato così pesante di emozioni
che era impossibile metterlo in valigia e riportarlo in Italia,
perciò avevo deciso di seppellirlo a Kragujevac sotto un albero
di betulle. Ed ora sono qui a riprendermelo. Con la mia
presenza ho intenzione di disonorare la guerra, perché la
guerra possa diventare per le future generazioni una curiosità
filologica. La mia speranza è che in futuro i bambini di tutto
il mondo, quando troveranno sui libri di storia la parola
"guerra" non sapranno cos'è e andranno a cercarne il
significato sul vocabolario. Purtroppo, i bambini jugoslavi,
palestinesi, iracheni, afgani, hanno provato sulla loro pelle
che cosa significa la parola "guerra", ma ho speranza che i
loro figli vivranno in un mondo di pace. Il futuro, il mondo,
dobbiamo schiodarlo dalle corna del toro di Wall Street. Il
futuro, il mondo, è nelle nostre mani, nei nostri cuori,
dobbiamo correre a riprenderlo! Dobbiamo rispondere con
l'internazionalismo e la solidarietà ai nazionalismi, agli
etnicismi e agli egoismi che sono stati coltivati in
laboratorio dai signori della guerra come arma batteriologica
per fare ammalare e dividere i popoli di tutto il mondo. Ai
signori della guerra dobbiamo rispondere con un unico grido:
lavoratori di tutto il mondo uniamoci!

Prima che si consegni il denaro, ricordo all'assemblea che è
morto un lavoratore della Zastava mentre faceva legna nel bosco
per riscaldare i suoi bambini, e la famiglia, come non aveva i
soldi per vivere, adesso non ha i soldi per seppellirlo.
Improvvisiamo una colletta tra i lavoratori e raggiungiamo
quasi 300 marchi a cui aggiungiamo altri 300 come associazione
Most za Beograd. I bambini si divertiranno come matti a contare
i soldi. 

 I fiammeggianti parchi belgradesi ci attendono. È impossibile
contare le foglie morte lungo i viali. È straziante vedere
cadere le foglie come assistere all'agonia di un malato
terminale che ha imboccato la strada di una freccia nel tempo. 

A Belgrado siamo ospiti di Gordana, vedova di un tenente medico
morto in guerra in Croazia. È dell'associazione Decie Istina
(la verità dei bambini) che si occupa dei profughi cacciati
dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Kosovo. L'associazione non è
finanziata da nessuno: vi lavorano tante donne che fanno
microprogetti per intervenire concretamente nelle piccole
situazioni. In tutta la Jugoslavia arrivano aiuti che loro
distribuiscono anche ai pensionati. 

Con il ricavato di una festa di beneficenza in una sera
d'estate alla casa in campagna di Andrea Navach a Mola di Bari,
si è riusciti ad adottare alcuni di questi sfortunati bambini. 

A casa di Iljana e Mikolina che ha cominciato a studiare
l'italiano all'Università, siamo in un caseggiato misero
all'ultimo piano, dove un torrente di sole inonda la stanza.
Vengono da Spalato, hanno perso il papà in guerra ("Operazione
Tempesta", agosto 1995, quando gli americani armarono i croati
e fecero un blitz scacciando 200.000 serbi). Pagano 200 marchi
per questo appartamento diviso con la figlia del proprietario.
La pensione del papà morto in guerra è di 350 marchi. Il
paniere dei beni di prima necessità è di circa 400 marchi. In
tutta la casa ci sono icone di legno (San Basilio, la madonna
di Costantinopoli). Mikolina - un po' d'inglese e qualche
parola d'italiano - ci dice che il governo croato è rimasto
nazionalista e xenofobo. Anche la loro casa in Croazia è stata
rasa al suolo.

Petar è semicieco e così la sorella. La madre ha un tumore al
cervello. L'appartamento è misero, ma stranamente è privo di
odori (come tutti gli altri visitati). In una minuscola stanza
vivono tutti insieme. In un armadio senza porte si vedono
coperte ripiegate - serviranno come giaciglio per la notte.
Petar ci fa vedere con orgoglio la sua collezione di biglietti
per le partite di calcio. Ha anche una fotografia della squadra
"Stella rossa" che vinse al San Nicola di Bari. Li regalerà
tutti ad un Andrea piuttosto riluttante e restio a portarsi via
quei biglietti che per Petar evidentemente significano tante
cose, tante passioni, speranze, illusioni, sogni. Petar ha
scritto con scrittura incerta una lettera per Andrea Navach.
Dovranno lasciare la casa tra un anno. E la madre e i due
ragazzi infermi a cui il "perfido" Milosevic aveva assicurato
la casa per dieci anni, saranno cacciati in un gelida strada di
Belgrado dal "democratico" Djindjic. Mentre ascolto,
dall'albero di platano, al di là del vetro, nel cortile, cadono
tante foglie gialle, così come sfioriscono prematuramente i
fiori di questa giovinezza mai sbocciata. 

Anche Slavko è semicieco, anche il suo è un povero
appartamentino all'ultimo piano, una stanza un cucinino e un
bagno. Da una finestra sconquassata si vede - ormai è buio - il
cielo sopra Belgrado, in cui è conficcata una stella
tremolante, come una foglia malata che sta per cadere: è la
metafora di queste vite appese ad un filo che la nostra
solidarietà tiene ancora teso. Il padre di Slavko è morto nel
'94, la famiglia viveva a Zagabria. Slavko fa il tifo per il
Kinder, Andrea, colto di sorpresa, e sprovvisto della spalla di
Claudio, in visita turistica nella capitale in cui non era mai
stato, si dice tifoso dell'Inter, ma è preoccupato di essere
interrogato sui giocatori di cui non conosce neppure il nome.
La prima volta scapparono da Zagabria, la seconda volta nel '95
da Knin, nella Krajna. I trisavoli erano bosniaci, sono serbi
di Bosnia e Croazia. Slavko e Mikolina dagli occhi sgranati
vengono inghiottiti dalla notte come dall'orco di una favola
dei fratelli Grimm e si chiudono a chiave mentre la mamma ci
accompagna a piazza della Repubblica. 

Non vediamo l'ora di scappare da Belgrado che ci ha depresso!
La visita ai profughi ci ha fatto uscire dalla festosa
atmosfera di Kragujevac, dove ci sentivamo a casa nostra.

E' l'ora della visita al prof. Niksa Stipcevic nel suo
bell'appartamento pieno di libri, molti in lingua italiana,
rari anche per noi, che dall'Italia veniamo. Abita in una via
che ancora l'anno scorso si chiamava Srpski Vladara ed ora,
invece, Kralja Milana. Nell'arco di 10 anni molte strade hanno
cambiato più volte i loro nomi: quelli legati alla resistenza
antinazista, o alla tradizione comunista ne hanno fatto
impietosamente le spese. La gatta Milica, in assenza di
Svetlana, come una sultana, si stira sul tappeto mentre scansa
vasi preziosi facendoci trattenere il fiato. Ha gli occhi rossi
e Niksa mi avverte che è pericolosa. Il discorso
immancabilmente scivola sulla guerra: l'Afghanistan è una terra
infelice! Lì si sono impantanati Alessandro Magno, Tamerlano, i
sovietici. Riguardo la nostra associazione si esprime in
maniera lusinghiera: le azioni dell'associazione sono
memorabili e incrementeranno l'amore jugoslavo verso l'Italia.
L'Italia è nel cuore degli jugoslavi. L'ambasciatore Sessa è
stato l'unico italiano insieme a tre diplomatici a rimanere
durante i 78 giorni di bombardamento a Belgrado, nonostante
l'ordine di tornare. Da un punto di vista sociologico c'è una
cosa interessantissima: negli ultimi 10 anni, lo studio della
lingua Italiana supera quello dell'Inglese all'Università di
Belgrado. Su un massimo di 100 punti di ammissione ai corsi,
l'Italianistica ha chiuso ad 88, l'Inglese ad 82, il Francese a
55. Durante i bombardamenti, c'erano per le strade alcuni
italiani; nessuno li ha offesi, perché i piloti italiani hanno
buttato le bombe in Adriatico e non sulle popolazioni civili. A
lui piace pensare così, e forse anche a noi... Molti suoi amici
di Belgrado sanno che esiste Most za Beograd, che contribuisce
a rafforzare l'amicizia tra due popoli. Le prime maestranze
della Zastava di Kragujevac venivano dall'Italia (dalla
fabbrica di Agnelli). Nel frattempo Milica si è adagiata sotto
l'abat jour e approva con la testa.

 Il lunedì mattina, dopo aver fatto visita alla sede
dell'associazione Decie Istina, veniamo accompagnati
all'aeroporto da Ranka, presidente dell'associazione, e Ivka,
profuga dal Kosovo. Ivka sembra Medea, sembra fuggita or ora
dal Kosovo, è tutta scarmigliata, arruffata. Ivka è fuggita con
una busta di plastica da Pec, in essa conserva tutto ciò che
per lei è significativo: un portafoglio sgualcito in cui sono
racchiuse le foto delle figlie. 

            Al momento della partenza, mentre sbrighiamo le
pratiche d'imbarco, all'aeroporto di Belgrado scoppia un
piccolo giallo. Un gelido doganiere balcanico mi chiede se ho
nulla da dichiarare e mi intima di aprire borsa e valigia.
Fruga dappertutto e, come se sapesse cosa cercare, a colpo
sicuro mi sequestra un carillonino cinese che una bambina della
Zastava mi ha regalato. Da esso proviene un forte ticchettio,
come di una bomba ad orologeria, in esso batte il mio cuore che
ho da poco disseppellito a Kragujevac con l'intenzione di
riportarmelo in Italia, nascosto tra foglie morte raccolte nei
parchi. Io mi faccio piccola piccola e imploro il cortese
doganiere, cercando di spiegare che trattasi solo del mio
piccolo cuore, che esso mi appartiene... ma come posso fare a
sopravvivere senza... che esso è solo un'arma di legittima
difesa che mi ha permesso di sopravvivere quando il mondo
crollava addosso ai nostri amici della Zastava, al
petrolchimico di Pancevo, e alla Jugoslavia tutta. Certo, ne ho
fatto un uso improprio, internazionalista, perché le leggi
italiane ne vietano espressamente l'esportazione ... ma qui
siamo in Jugoslavia ed è assurdo che le sue frontiere me lo
trattengano senza motivo. Non me l'hanno sequestrato neppure a
Fiumicino... lì sì che si trattava di esportazione illegale di
materiale altamente pericoloso... Signor doganiere, come potrò
continuare la mia attività del Most za Beograd? Andrea cerca di
convincerlo parlando in russo. Niente da fare. Il cortese
doganiere balcanico, soddisfatto del suo bottino, mi attraversa
con un gelido sguardo come se io fossi un trasparente fantasma
e, sequestrato il carillonino, mi dà il permesso di partire.
Ormai ho perso anche le foglie gialle che vi erano racchiuse.

 Le foglie gialle le porterò ormai solo nei miei ricordi come
sigla del mio viaggio d'autunno balcanico, come la metafora di
un popolo che muore per colpa della nostra dimenticanza. Mentre
il rombo dell'aereo culla i miei ricordi e mi procura
sonnolenza, come un rosario sgrano nella mia mente i versi del
mio poeta preferito, il turco Nazim Hikmet: 

           Veder cadere le foglie mi lacera dentro

              soprattutto le foglie dei viali 

              soprattutto se sono ippocastani 

             soprattutto se passano dei bimbi 

             soprattutto se il cielo è sereno 

            soprattutto se ho avuto, quel giorno 

                    una buona notizia 

            soprattutto se il cuore quel giorno 

                     non mi fa male! 

              soprattutto se credo quel giorno

                che quella che amo mi ami! 

                soprattutto se quel giorno 

             mi sento d'accordo con gli uomini

                    e con me stesso. 

          Veder cadere le foglie mi lacera dentro 

              soprattutto le foglie dei viali 

                 dei viali di ippocastani!

 Arrivederci Belgrado! questa volta mi hai imprigionata nel
cerchio stregato del tuo fiammeggiante barocco danubiano, la
cui polvere dorata mi è rimasta impiastricciata tra le mani! 

 Ormai sono passati 15 giorni dal nostro rientro in Italia:
stamattina il postino citofona invitandomi giù a ritirare una
raccomandata. Firmo e, con occhi impazienti leggo dalla
intestazione della busta che essa proviene dalle dogane
jugoslave. La apro e cade per terra una minuscola foglia dorata
di tiglio. La lettera è scritta in serbo e c'è anche la
traduzione italiana. Sono informata in perfetto linguaggio
burocratico, con mille scuse, che il materiale sequestratomi,
per uno spiacevole errore dalla polizia di frontiera, è
custodito in località segreta a Kragujevac e che, poiché mi
appartiene (trattasi di sequestro e non di confisca), è
trattenuto solo momentaneamente dalle autorità locali e che
sarò la ben accetta in Jugoslavia quando vorrò andarmelo a
riprendere. Dopo aver letto, riletto e ripiegato la lettera, mi
chino per terra a raccogliere la minuscola foglia dorata di
tiglio che il cuore balcanico di un austero funzionario del
ministero degli esteri jugoslavo ha voluto inviarmi per
invogliarmi a tornare a Kragujevac.