Fw: TUTE E GUERRE



Title: TUTE E GUERRE
 
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Sent: Monday, December 03, 2001 12:34 PM
Subject: Fw: TUTE E GUERRE

 
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Sent: Sunday, August 05, 2001 2:06 PM
Subject: TUTE E GUERRE

TUTE E GUERRE

 

FULVIO GRIMALDI PER “L’ERNESTO”

Agosto 2001

 

Quello che nell’agire del “Movimento” tra Seattle e Genova ha maggiormente sconcertato gli analisti seri, tra i quali non vanno inclusi gli scomposti innamorati del “nuovo” (che poi pare essere qualsiasi assembramento un po’ massiccio, dalla Belgrado del 5 ottobre 2000 alla marcia zapatista), è stata l’assoluta assenza della tematica della guerra e l’indifferenza-silenzio con cui è stato coperto il ruolo del suo protagonista assoluto, gli Stati Uniti. Qualcuno si è spinto fino a sospettare, ingiustamente per la stragrande maggioranza dei partecipanti al grandioso corteo di venerdì 21 luglio, per metà compagni o simpatizzanti di una fin troppo umile Rifondazione Comunista, che tutta la straordinaria mobilitazione contro il G8 potesse risultare, quanto meno oggettivamente, un gigantesco diversivo rispetto a un mondo aggredito da guerre imperialiste, con l’Italia nel cuore strategico di una militarizzazione “civile” e bellica senza precedenti dai tempi dell’ultima guerra mondiale. Del resto anche l’aggettivo “capitalista”, sul quale solitaria insisteva Rifondazione, è del tutto estraneo alla definizione da sempre data dal “movimento” a una globalizzazione ristretta nel suo ambito commerciale e sociale. Può sconcertare, ma non può sorprendere chi abbia osservato da vicino e scevro da sbandamenti nuovistici  il percorso delle varie componenti del “movimento” e, in particolare, quello della sua minoritaria, ma vociferante e mediaticamente egemone anima antipolitica e sociale. Tute bianche, Ya Basta, Centri sociali del Nord-Est, Meltin’, Cantieri Sociali (e il loro house-organ “Carta”) e altre titolazioni sono sigle diverse di una realtà unica, quantitativamente ridotta ma con una professionale capacità di assumere, o millantare, rappresentanza e direzione, in ciò favorita anche dalla monotematicità  delle altre correnti nel flusso antiglobal: quelli del debito da rimettere, quelli delle speculazioni finanziarie da tassare, quelli dell’ambiente, quelli del commercio equo, quelli del no profit, quelli della democrazia partecipativa, quelli dei diritti umani. I leader delle Tute Bianche,o come diavolo si chiamano, pur privi di una cultura politica di un qualche spessore e ancor più privi di un progetto che non sia la mera “difesa degli esclusi”, immigrati, nomadi, gay, donne, o indios che siano, sostenuta da formulette localistiche di chiara marca criptoleghista (non per nulla, ai vessilliferi ideologici alla Marco Revelli e Toni Negri, associano padrini politico-economici tipo Benetton o Cacciari), non perdono occasione per esprimere, come costante teorica, un anticomunismo viscerale. Formule come “democrazia municipale”, mutuata dalle comunità maja del Chiapas, “scuola territoriale”, “partecipazione” (e qui l’idolatrato punto d’arrivo è quel Porto Alegre in cui alle popolazioni dei quartieri si è concesso di ascoltare le decisioni delle autorità locali, rigorosamente non in conflitto con quelle ultraliberiste centrali, di esprimere un parere consultivo e di tornarsene a casa senza aver minimamente inciso sul processo decisionale; un po’ quello che nei ’70 capitò a studenti e genitori con i famigerati “decreti delegati”) si sublimano nella possibilità di “un altro mondo” di cui vengono accuratamente taciuti i connotati politici e, dio non voglia, le contrapposizioni di classe. Queste ultime sono sussunte e annegate nella formula ramonetiana della “società civile”, espressione di una dialettica che non vede più separati sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori, lavoro e capitale, ma  chi gestisce un potere centrale, magari nazionale, e chi, bossianamente, rivendica un potere “reticolare” innestato sui campanili. In sostanza, un ruolo proprio che dia il diritto a un posto a tavola in un capitalismo attutito e corretto, con spazi di compassione e  carità  per i poveri, da affidare al “volontario” no-profit, successore di quella figura consunta  che era il “militante” impegnato ad accompagnare le masse (oggi evangelicamente “moltitudini”) verso un rovesciamento dello stato di cose esistente. Ma torniamo alla questione “tute e guerre”.

Frequentatore assiduo di centri sociali, nella maggioranza profondamente sospettosi, se non ostili, al protagonismo luddista e violentemente non-violento, ma con mimetizzate forme di intese istituzionali, dei leader del Nord-Est, come alla pratica di un esasperato verticismo fatto di brutali emarginazioni dei dissidenti e di funzioni dirigenziali mai sottoposte a verifiche democratiche, fui con Ya Basta in Chiapas. I tanti bravissimi ragazzi e non-ragazzi, che si erano spinti nella Selva Lacandona per trovare una via politica nuovamente rivoluzionaria all’ antagonismo istintivo  maturato nel mondo dei Craxi, D’Alema, Wojtyla, Reagan, Bush e Clinton e nell’era del revisionismo obliterazionista delle lotte e vittorie di popoli e classi, venivano istruiti, alla mano delle fiabe adolescenziali di Marcos e alla vista degli zapatisti, con passamontagna davanti agli obiettivi e senza quando gli strumenti diripresa riposavano, sui supremi valori della non violenza, dell’antinazionalismo parificato con l’antistatalismo, e del rifiuto del potere. Massimo obiettivo, la nicchia. Degli indios nel Chiapas, in totale noncuranza verso gli immani sommovimenti anticapitalisti ed antimperialisti del Messico e dell’America Latina tutta, come dei centri sociali in Europa. Obiettivo poi consacrato nella marcia zapatista, “protetta” dalle tute bianche, della primavera scorsa e nella deposizione definitiva delle armi, poi dichiarata da Marcos nonostante l’esiguità dei risultati ottenuti con il prezioso riconoscimento tributato al più liberista e amerikano dei presidenti che il Messico abbia avuto. Armi del resto silenziate fin dal 1 gennaio 1994, quando l’insurrezione zapatista pose fine a un decennio di focolai armati nel Chiapas, contigui a tanti negli altri stati messicani, che – quelli sì-avevano messo radicalmente in discussione la presa di militari, paramilitari, latifondisti, multinazionali e narcotrafficanti sullo stato più ricco di risorse del paese.

 

La tematica guerra entra inevitabilmente nelle mobilitazioni dei padovani (chiamiamoli così per semplicità, senza trascurare il peso del Leoncavallo e di alcuni centri sociali del Centro) quando tutto il paese si chiede il perché del suo coinvolgimento in una guerra Nato, fortissimamente voluta dagli USA e, in sotterranea competizione, da una Germania rilanciata da Schroeder sulla pista bismarkiana e hitleriana delle conquista degli spazi energetici e di mercato attorno ai mari caldi. Ma è un coinvolgimento raffinatamente ambiguo che unisce nella sfera della non violenza la condanna paritetica alla guerra Nato e l’esecrazione della dittatura nazionalista (per le Donne in Nero addirittura “fascista”) di Slobodan Milosevic. Strumento di mobilitazione contro un popolo serbo che, in tutta evidenza, “se l’è voluta”, tutti gli stereotipi della diffamazione scientifica  occidentale, dalle “pulizie etniche” al “despota iniziatore di tutte le tragedie balcaniche”, espressi con particolare scaltrezza da un video realizzato dal “movimento” (anche lì !) a Belgrado. Anniversario della morte di Tito. Da tutta la Federazione jugoslava, ancora non sbranata da secessionismi, quelli davvero di natura fascistoide, per quanto consacrati da Washington, Vaticano e Marco Panella in mimetica, convergono nella capitale operai e contadini, vecchi partigiani, sindacati, partiti di sinistra. Dalle finestre della famosa Radio B92 (referente della padovana Radio Sherwood e vista come portavoce del ribellismo giovanile e democratico serbo, poi risultata anello della catena informativa CIA in Est Europa) giovani della borghesia belgradese frammisti a elementi provenienti dal sottoproletariato di periferia, lo stesso mix che, volendo, si può constatare all’opera nei giorni del colpo di stato USA, si vedono inveire contro i manifestanti. Poi scendono in strada e con mazze e spranghe aggrediscono il corteo. Si rompono teste a operai inermi, si strappano foto di Tito e Milosevic, si fa scorrere sangue. Quando la polizia, molto lentamente, si mette in mezzo, i “ragazzi non violenti di B92” gli infilano fiori nei taschini. In assenza dei leader del Corto Circuito, centro sociale romano dove avviene la proiezione, riesco subito dopo a proiettare un mio video girato sotto le bombe: “Jugoslavia, il popolo invisibile”. Abbeverati a TG3, con una cronista particolarmente necrofila e bugiarda come Giovanna Botteri, e ai comunicati e filmati di B92, i ragazzi del centro s’imbattono per la prima volta in una controinformazione. Restano genuinamente sconvolti e commossi. Segno della grande riserva di genuinità e ingenuità su cui operano personaggi come Luca Casarini, colui che “non violentemente” dichiarò guerra al G8  e, con i non sufficientemente ridicoli giochetti di invasione della zona rossa, poi “disubbedienza civile”, per settimane alimentò la psicosi terroristica dei media e spianò la strada alla militarizzazione della regione.

Questo giornale ha già avuto occasione di illustrare altri aspetti della politica di questa componente del movimento in relazione alla Jugoslavia, in particolare i legami organici – oggi discretamente messi in ombra da protagonisti e corifei esterni – con i movimenti serbi di contestazione al governo che difendeva il paese contro lo smembramento e il genocidio operato da Nato e banditi UCK, oggi anche in Macedonia, con bombe, uranio, contaminazioni chimiche, e stragi etniche. Prima con Alleanza Civica, che guidava, ampiamente e apertamente finanziato dallo speculatore FMI George Soros (coerenza delle proteste contro il FMI!) e dagli USA, le manifestazioni, bandiere a stelle e strisce in testa, degli anni ’97-’98. E poi con Otpor , la formazione messa in piedi, pagata, e istruita a Budpaest e Sofia dalla CIA , come ebbero ad ammettere fieramente i suoi leader, da Vesna Pesic a Sonia Licht, ripetutamente ospiti dei padovani in Italia.

Ingenuità? Errori? Comunanza anticomunista? Vituperio di quel residuo di socialismo reale, orrendamente statalista e nazionalista, che era la multietnica e democratica Federazione Jugoslava, eternamente sulla difensiva dalla Nato, da banditi come Tudjman e Izetbegovic e dai non-violenti in Italia?  O qualcosa di peggio, come darebbe ad intendere l’ostinato silenzio sulle guerre, che, approfittando del diversivo G8, che annacquava le assolutamente dominanti responsabilità USA in un concerto di diseguali e addirittura concorrenti (Kyoto, Nato d’attacco nucleare, Scudo spaziale, mine, nucleare, guerre batteriologice, OGM, Balcani, Medio oriente, protezionismo USA), proprio nei giorni di Genova permetteva di mettere la sordina alla soluzione finale in atto in Palestina, alla frantumazione della Macedonia, al genocidio rurale operato in Colombia con lo sterminatore di coltivazioni e vite della Monsanto, Roundup, al sotterramento della liquidazione dei curdi, alla spaventosa accelerazione riarmistica funzionale alle conquiste imperialistiche, alla sottomissione di alleati perplessi, al rilancio di un’economia USA in gravissima recessione.

Bisognerebbe essere ciechi per non vedere, da critici della globalizzazione neoliberista e protagonisti del pacifismo, come lo strumento risolutivo, universalmente e massicciamente in corso d’opera, di questa globalizzazione, che realizza come meglio non potrebbe l’assunto leninista dell’imperialismo come stadio supremo del capitalismo, siano i missili israeliani, gli obici dell’UCK, le bombe e l’embargo genocidi  all’Iraq, e, nelle retrovie, le basi USA in Italia e il guerrafondaismo del nuovo regime proconsolare e fascistizzante berluscofiniano, il tribunale dell’Aja, il rullo compressore dell’informazione unificata nell’oligarchia mediatica compartecipe del complesso militar-industriale, nel quale, pure, qualcuno si ostina di individuare spazi democratici.

Che il conflitto di classe - concetto espunto radicalmente dai neoradicali del movimento -  si sia trasformato in guerra generale lo ha dimostrato il golpe neanche tanto bianco di Genova con il messaggio : “se sei contro e lo vuoi manifestare,rischi di morire”. E’ la logica della guerra di bassa intensità in casa propria e dei vassalli, e di alta intensità contro i paesi che “mettono a rischio la sicurezza e gli interessi degli Stati Uniti” . Non mettere al centro questo dato di fatto, che caratterizza in modo tragico e totalizzante l’inizio millennio; non cercare di dare, superando immaturità ed ambiguità, alle forze che si oppongono a questa vera e propria ricolonizzazione militarista e schiavista USA del mondo una coscienza di classe e una direzione consapevole e unitaria, con un progetto unificante per classi e popoli subalterni che non sia un “altro mondo”, ma un mondo inevitabilmente socialista ed antimperialista, significa suicidio. O, peggio, collusione. L’ossimoro (sia detto agli specialisti degli ossimori) della disobbedienza civile, o della resistenza non-violenta, è il drammatico – per gli oppressi - retaggio di mezzo secolo di disarmo morale e politico, di disintegrazione del principio addirittura biologico dell’autodifesa (vedi Chiapas), operato dalle centrali della smobilitazione culturale, politica e fisica proletaria. Attualizzato prima dalla mistificazione ghandiana di Marco Panella e fratelli, a sostegno vuoi della pulizia etnica croata, vuoi del sionismo stragista in Israele, vuoi del massacro operaio dell’impresa ulivista-berlusconide, ha trovato nelle componenti del movimento che abbiamo considerato una nuova, più pericolosa nell’urgenza dell’aggressione, sistematizzazione. La parola d’ordine di non dover mettersi in gioco per l’impresa più dura di tutte, la sottrazione del potere alla borghesia, pur potendo blaterare contro lo Stato (che poi non è altro che la disintegrazione dal basso dell’analogo processo condotto dall’alto dall’imperialismo privatizzante) e di mettersi al sicuro dall’eccessiva cattiveria della repressione con non violenza, scudi di plexiglass e gommapiuma, si è dissolta nella  sanguinosa catastrofe genovese. Scudi e giochino di disobbedienza civile hanno agevolato la messa in atto di un stato d’assedio prefascista. L’assenza di uno strumento di protezione interna ed esterna come l’eterno, irrinunciabile servizo d’ordine di tutte le manifestazioni di opposizione, ha dato una mano. Ma il delitto vero è stato quello di farci dimenticare la guerra. Tanto d’averla subita ignari e inermi.

Un ottimo analista delle questioni balcaniche, Tommaso di Francesco del “Manifesto”,

ha scritto, con accenti di disperazione, che se il popolo di Genova avesse dedicato solo un grammo della sua passione all’Intifada  e alla tragedia palestinese, ecco che quel popolo sarebbe stato meno solo. E anche noi.e tutti coloro che subiscono la globalizzione finale con la guerra.

Ma ci sarebbe voluta un’altra direzione politica. Bisogno che si sente in misura sempre più intensa. Non per nulla nei giorni del dopo-Genova,tutti i teorici e portavoce del tutabianchismo hanno tentato di mascherare la loro disfatta e il conseguente disvelamento politico con massicci interventi su organi di stampa ospitali,a sostegno di un movimento “senza leader”, vale a dire con i leader ademocratici che ci hanno portato in un vicolo cieco. Il vicolo cieco dei senza-partito. Degli anti-partito.