Pneumatici con catene




Pneumatici con catene
Carmine Curci, da Harbel City

Nel numero di giugno Nigrizia denuncia le condizioni in cui opera in Liberia la Firestone, concessionaria della più grande coltivazione di caucciù del mondo. L’intera produzione è esportata. Allarmante l’inquinamento dell’ambiente. Scandaloso lo sfruttamento degli operai. Rinnovato il permesso fino al 2061.


È un grande cartello, con il logo della multinazionale, a dare il benvenuto a chi arriva ai cancelli della piantagione. A pochi metri di distanza, in una postazione delle Nazioni Unite con personale nigeriano, un militare con mitragliatrice pesante controlla il movimento delle persone. Dall’altra parte della strada, un’autoblindo bianca è pronta per qualsiasi evenienza.

 

Un secondo cartello obbliga le automobili a fermarsi e i passeggeri a proseguire a piedi. Passi la sorveglianza della polizia liberiana, poi di quella nigeriana. Superi il cancello, percorri una strada alberata fino ad Harbel City, nel bel mezzo della piantagione, ed ecco lo stabilimento Firestone.

 

È qui dal 1926, cioè da quando Harvey S. Firestone, fondatore della nota fabbrica di pneumatici, decise di rendere gli Usa indipendenti dalla produzione britannica e olandese di gomma e firmò con il governo liberiano un accordo per la concessione di un milione di acri di terreno, della durata di 99 anni (rinnovabili), a un costo irrisorio. Gli alberi – della specie hevea brasiliensis – furono importati dal Brasile.

 

Da allora, la compagnia – fusasi con la Bridgestone nel 1988 – ha esportato dalla Liberia milioni di tonnellate di caucciù, ma non ha mai impiantato nel paese uno stabilimento per la produzione della gomma e dei suoi derivati. La Liberia è oggi il terzo produttore mondiale di caucciù – dopo Tailandia e Malesia – ma non produce un solo oggetto di gomma.

 

Schiavitù

 

Sono 20mila i lavoratori nella Firestone Rubber Plantation: 14mila fissi, 6mila saltuari. Uno di essi, Joseph Wolo, mi racconta la giornata tipica di un estrattore di lattice: «Iniziamo alle 4.00 e smettiamo alle 16.00. Incidiamo gli alberi, vi applichiamo i contenitori e, quando questi sono pieni, li svuotiamo e puliamo.

 

Poi, applichiamo al taglio stimolanti e fungicidi, per forzare le piante a produrre altro lattice, incidiamo di nuovo, e via dicendo... Un lavoratore riesce a incidere fino a 850 alberi al giorno». Gli chiedo del salario. «Il contratto è di 3 dollari al giorno. Ma, tolte le tasse e altre detrazioni, rimaniamo con un dollaro e mezzo. Siamo gli operai più tassati del paese».

 

Per incrementare la produzione, la compagnia ha, da tempo, introdotto una sorta di “premio di produzione”. «Ma va, per lo più, a vantaggio dei sovrintendenti. Questi hanno escogitato strategie che si traducono in maggior sfruttamento degli operai. Pretendono lavoro  doppio: fino a 1.500 alberi ogni giorno. Siamo allora costretti a farci aiutare dai famigliari, figli più piccoli inclusi».

 

Scuote il capo: «È un vero sistema di schiavitù, che ci rende succubi dei capi. Se dici di no, vieni mandato via dalla piantagione. E c’è sempre un altro disperato come te disposto ad accettare queste condizioni. Anche a essere pagato soltanto metà giornata, se non arrivi a completare il numero fissato di alberi».

 

Moises  Hoff, 30 anni alla Firestone, alla vigilia della pensione: «Percepirò 20 miseri dollari al mese. E se almeno li ricevessi subito! Dovrò attenderli a lungo. Lo stesso vale per la liquidazione. Alcuni colleghi li stanno aspettando da oltre un anno». È seduto davanti alla porta di casa. Tiene il volto rivolto a terra. Quando lo alza, noto gli occhi semichiusi, come infiammati. Spiega: «Ho lavorato con sostanze chimiche e i miei occhi hanno subito gravi danni. Sono stato, però, più fortunato di altri, che hanno perso la vista. Non ricevono alcun compenso, né dalla compagnia, né dallo stato, nonostante i molti contributi versati».

 

Le dimore assegnate ai lavoratori e alle loro famiglie sono fatiscenti: sovente, un solo vano, in condizioni deplorevoli. «E ci viviamo in quattro, sei, fino a otto persone» mi dice, indicandomi la moglie e i figli.

Ad Harbel Hills – c’è una sbarra da superare – le case assegnate ai dirigenti della Firestone sono lussuosissime: elettricità, acqua corrente, paraboliche… C’è anche un campo da golf e vari campi da tennis.

 

Incontro Henry Nyanti, elettricista. Sta lavorando a un trasformatore. «Grazie a una sua centrale idroelettrica, la compagnia produce circa 1,5 milioni di Kw al mese». Nessun Kw per gli operai: i fili sorvolano soltanto le loro casupole.

 

Nelle 45 divisioni in cui è suddivisa la piantagione vi sono 10 scuole elementari e 4 medie. Jennifer Taweh, madre di quattro bambini: «I nostri figli devono camminare 7 chilometri per raggiungere la scuola. Ma ciò che mi fa più rabbia è che manca sempre il materiale didattico. Le aule sono sovraffollate. E così, noi genitori siamo costretti a costruire capanne di paglia per accomodare gli alunni».

Anne, una sua vicina: «Ovviamente questo vale solo per i figli degli operai. Per quelli dei dirigenti, le aule sono belle e ben rifornite. Prima della guerra civile, per loro c’erano perfino scuolabus». Non c’è una sola scuola superiore nella piantagione. Terminate le medie, il 90% dei figli degli operai rimangono nella piantagione.

 

Degrado ambientale

 

C’è un forte odore acre all’interno della piantagione. Lo stabilimento emette grandi quantità di fumo e la concentrazione di diossido di carbonio nell’aria è certamente elevata.

I rifiuti della lavorazione della gomma sono scaricati nel fiume Farmington. A Monrovia, i responsabili dell’associazione ambientalista Save my Future m’hanno giurato: «La Firestone inquina il Farmington con gli scarichi del suo enorme impianto di centrifuga e di altri ancora. Abbiamo dimostrato che nel fiume finiscono acido sulfurico, ammoniaca, formaldeide e altre sostanze tossiche. L’acqua è imbevibile. Grande è la moria di pesci».

 

La compagnia rifiuta le accuse. Edwin Padmore, un dirigente, dichiara: «Siamo dotati di sofisticati sistemi per purificare l’acqua usata per la lavorazione della gomma. Test fatti nei nostri laboratori certificano la purezza dell’acqua e la non tossicità dei fumi». Poi, però, si lascia sfuggire: «La situazione ambientale nella piantagione è entro livelli accettabili».

 

Quando torno alla capitale, rivisito Save my Future. James Makor, direttore esecutivo, insiste: «La compagnia non sta facendo niente per migliorare la situazione ambientale e le condizioni lavorative dei dipendenti». Mi parla di giustizia: «I salari non pagano il lavoro esigito. I leader sindacali interni sono marionette nelle mani dei dirigenti. I lavoratori non hanno dove potersi rivolgere per difendere i propri diritti. Possiamo documentare numerose forme di sfruttamento minorile».

 

Il 5 aprile scorso, nonostante l’indignazione di molti cittadini e organismi civili, l’Assemblea nazionale legislativa di transizione (Anlt) della Liberia ha ratificato un accordo con la Firestone per l’estensione della concessione della piantagione per altri 36 anni: fino al 2061.

Makor: «È un atto illegale. L’Anlt, poiché è ad interim, non ha alcuna base legale per fare questo. La nostra speranza è che, dopo le elezioni di ottobre, il nuovo parlamento rigetti questa nuova concessione». Ma lo farà? «Visti i candidati al parlamento, ho seri dubbi».

Mentre ci salutiamo, penso: ma la Ferrari non collauda e usa pneumatici Bridgestone/Firestone in Formula 1? Se solo i suoi sostenitori sapessero da dove viene la materia prima!

 


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