fuga dall'africa



Fuga dall'Africa: in viaggio con i clandestini di Fabrizio Gatti



Dal Senegal alla Libia, il tragico business dell'immigrazione



da Il Corriere della Sera del 24 dicembre 2003



24 dicembre 2003



Sulle piste del Ténéré e del Sahara per un mese e mezzo tra incidenti,
violenze e dolore. Li abbiamo seguiti per 5 mila km



I soldati li hanno fatti scendere dal camion vicino a un pozzo sperduto nel
deserto, perché i 22 immigrati non avevano più niente. Nemmeno un paio di
scarpe

bucate con cui pagare l'estorsione. E ormai la polvere si è impossessata dei
loro capelli, dei vestiti logori, della loro pelle. Quando camminano è
perfino

difficile distinguerli sullo sfondo arido del paesaggio.



Nessuna pietà protegge i clandestini che dall'Africa della costa cercano di
raggiungere l'Italia e l'Europa. Partono dal Senegal, dal Mali, dalla
Guinea.

Scappano da Sierra Leone, Liberia, Costa d'Avorio, Ghana, Benin, Togo,
Nigeria e Camerun. E dopo qualche migliaio di chilometri in pullman, camion
o su

minibus stracolmi, si raccolgono ad Agadez, in Niger. Affrontano il Ténéré,
il deserto dei deserti. Poi il Sahara. Un popolo in fuga: ogni mese
quindicimila

persone attraversano le dune e i grandi plateau in marcia verso Nord. Quasi
tutti uomini, poche donne, raramente un bambino. Abbiamo viaggiato con loro.



Li abbiamo seguiti nel percorso più lungo, la via che incrocia tutte le
altre. Da Dakar, Senegal, alla Libia. Uno zaino, la tanica per bere e un
turbante

tuareg per nascondere la pelle chiara nei momenti più delicati. Cinquemila
chilometri, lasciando alle spalle l'Africa dei fiumi per attraversare erg,
pianure

e valli dove la sabbia ha preso il posto dell'acqua.

Un mese e mezzo di spostamenti e attese, incidenti, violenze e dolore. Non
tutti riescono ad arrivare fin qui. Non tutti vedranno questo orizzonte di
polvere

rossa che dal Niger scende finalmente in Libia, all'unica strada asfaltata
che in un giorno porta a Tripoli, al Mare Mediterraneo, alle barche
stracariche

di clandestini che salpano verso Lampedusa. Kofi, 24 anni, partito dal
Ghana, è morto di fame e polmonite all'autostazione di Agadez.

Sei ore di convulsioni e invece del medico, i guardiani hanno chiamato i
poliziotti: Kofi non aveva i 1000 franchi, un euro e 50, per pagare l'
ospedale.

Oliver, arrivato dalla Nigeria, è stato soffocato da una pallottola di
banconote. Aveva 800 dollari, i gendarmi nigerini stavano spogliando e
massacrando

di botte tutti gli stranieri perquisiti prima di lui. E Oliver, disperato,
ha ingoiato i soldi per nasconderli. La sua vita è finita così.

Il traffico dei clandestini verso l'Italia è il più grande affare di
polizia, gendarmeria e forze armate del Niger. E dei reparti libici che
pattugliano

il valico di Tumù e il confine meridionale. A ogni posto di controllo ogni
immigrato deve sborsare una tangente. Militari e agenti nigerini chiedono 10

mila franchi, 15 euro e 40. Spesso si accontentano di cinquemila. Ma se
nelle perquisizioni e nei pestaggi trovano di più, si tengono tutto: a volte
sono

rotoli di 800, mille dollari, messi da parte per pagare il viaggio finale in
barca.

Superare i 2040 chilometri tra Niamey e la Libia può costare in estorsioni
tra i 60 mila e i 100 mila franchi: più del prezzo del viaggio sulla stessa
distanza,

55 mila franchi.



Estorsioni ai posti di controllo - I dodici posti di controllo, dalla
capitale al fortino di Madama, rendono all'esercito e alla polizia nigerini
tra il

milione e mezzo e i due milioni di euro al mese. Fino a 20 milioni di euro
all'anno. Con queste cifre, da queste parti, si armano squadroni speciali,
si

comprano campagne elettorali, si organizzano colpi di Stato. I militari
libici prendono il resto. Sequestrano quello che rimane nelle tasche degli
stranieri

che passano a Tumù, con la scusa di qualche irregolarità: la mancanza del
visto, o il divieto di far circolare valuta straniera.

Chi sopravvive alla fame, alle torture, alla fatica, alle razzie, raggiunge
la Libia eroicamente aggrappato ai camion. Grappoli di teste, braccia, gambe

e bidoni pieni d'acqua nascondono le lamiere dei grandi Mercedes 6x6 o dei
modelli anni '50. Da Agadez ne partono almeno tre ogni giorno, guidati da
autisti

arabi o tubù: 150-200 persone per camion. Senza contare chi viaggia con i
trasporti di capre e cammelli, i convogli mensili con le sigarette di
contrabbando,

i vecchi furgoni Toyota 45. Quattro o cinque giorni di Ténéré, se tutto va
bene, da Agadez a Dirkou: 660 chilometri, 15 mila franchi il biglietto, 23
euro.

E poi il Sahara. Altri quattro o cinque giorni di piste, da Dirkou ad Al
Gatrun, in Libia, dove comincia la strada asfaltata: 830 chilometri, 25 mila
franchi,

38 euro e 50.

I furgoni costano il doppio perché arrivano prima. Se non si perdono e non
si rompono. In maggio, il mese più caldo, un autista ha preso una mescebed,
una

pista abbandonata. Il camion si è insabbiato: 63 morti di sete. Sempre in
quel periodo un Toyota stracarico di clandestini si è guastato in mezzo al
Ténéré.

C'era un altro furgone lì dietro. L'autista ha deciso di tornare all'oasi di
Dirkou e cercare i pezzi di ricambio. Si è rotto anche quel Toyota. Il primo

non l'hanno mai più ritrovato. Del secondo, si sono salvati in pochi. Altri
sessanta morti.

Fino a Niamey, capitale del Niger, è un viaggio normale. Con tutti i normali
imprevisti di un viaggio in Africa. Un treno deragliato dopo Tambacounda, in

Senegal. Il taxi brousse, il minibus del Sahel, con la coppa dell'olio
squarciata in Mali. L'assalto dei banditi di notte, sul treno degli
immigrati da

Kayes a Bamako. Una gomma senza più battistrada ridotta a un gomitolo di fil
di ferro, sulla strada di Ayorou tra Mali e Niger.



La partenza è all'alba - A Niamey la stazione degli autobus Sntv, la società
nazionale, è in riva al fiume Niger. Il biglietto per Agadez si paga il
giorno

prima. Nella sala d'attesa il grande televisore a colori trasmette un
documentario via satellite: le coste della Tunisia, il mare, Malta,
Lampedusa, Pantelleria,

la Sicilia, i pescherecci, le barche a vela, i monumenti, volti felici, la
sigla, l'indirizzo dei produttori, Palermo, Sicily, Italy.

Si parte alle 6, presentazione alle 5.30. Anche le zanzare devono conoscere
l'orario. Sciami malarici ronzano intorno ai passeggeri che non smettono di

darsi sberle. In cima alla scarpata, un po' più a sinistra, la residenza del
presidente della Repubblica, Mamadou Tandja. E sotto, a destra, un capannone

abbandonato dove dormono gli stranieri che hanno finito i soldi. «Allah è
grande, la pace sia con voi», dice l'imam nella moschea sotto la tettoia. Le

donne non possono entrare. Si inginocchiano sulla terra impregnata d'olio
del parcheggio e senza volerlo rivolgono le loro invocazioni al banco
pericolante

che vende sigarette, caramelle, bottiglie d'acqua e fiammiferi. Il pullman
si mette in moto dopo la preghiera. Gli stranieri si sono nascosti in fondo.

Davanti i nigerini. Tra loro un tuareg con il taguelmoust, il turbante
bianco. E tre hausa, con le cicatrici tribali che dagli angoli della bocca
incidono

le guance come i baffi di Gatto Silvestro. A Birni-Nkonni, la prima razzia.
Due barili ai lati della strada e una corda come sbarra del posto di blocco.

Il passaporto italiano non è un problema. L'agente in mimetica apre un
documento nigeriano. E subito dopo un passaporto azzurro della Liberia. «Voi
due

- urla in hausa - scendete». L'ufficio di polizia è una casupola in banco, i
muri impastati con fango e paglia. Dura un quarto d'ora. Poi il nigeriano

e il liberiano tornano sul pullman. Quanto avete pagato? «Io duemila - dice
il nigeriano - perché ho il visto, il mio amico cinquemila franchi». Un
chilometro

dopo, l'alt dei doganieri. Il controllo dura un'ora, sotto il sole dell'una.
E questa volta anche i clandestini seduti in fondo al pullman devono pagare.

A Tahoua i gendarmi sono già impegnati con un minibus stracarico. Ma all'
arrivo ad Agadez, quando è già buio, tutti gli immigrati sono trattenuti al
posto

di controllo. Una tettoia e una fila di casupole, un motorino, due soldati
con il mitra stretto nelle braccia e dodici stranieri in piedi davanti a tre

borse e un trolley. Qui è finito il viaggio di Oliver, il 20 marzo,
soffocato da una pallottola di dollari.



In piedi per tutta la notte - Con i clandestini ci si ritrova la mattina
dopo, nel grande recinto dove arrivano corriere e minibus e partono i camion
del

deserto. Un vecchio Mercedes 6x6 è pronto, con la sua collana di bidoni
appesi tutt'intorno. Bill C., 24 anni, di Monrovia, Liberia, zoppica: «Ci
hanno

tenuti in piedi per ore, tutta la notte - racconta -. A me i militari hanno
fatto sollevare il piede destro e piantato un coltello nella suola della
scarpa.

Così, zac, zac, zac. Poi l'hanno fatto con il sinistro. Volevano i soldi,
credevano li avessimo nascosti nelle scarpe. Quando ho gridato per il
dolore,

hanno capito che lì non c'erano nascondigli». Bill, figlio di un
viceministro assassinato con la moglie nel '96 in Liberia, è in fuga con due
amici, Adolphus

K., 24 anni, e Aloshu B., 30. Scappa perché, dice, ha paura che gli
avversari del padre possano uccidere anche lui. Da quattro anni i tre
ragazzi abitavano

nel campo profughi di Buduburam ad Accra, in Ghana. Sui loro passaporti
azzurri c'è la stessa data di rilascio: 11 novembre. «Io e Adolphus siamo
partiti

con 250 dollari», rivela Bill. «Io ne avevo 130 - spiega Aloshu -. Il
viaggio è andato bene fino al Niger. Ma alla frontiera di Maradi i
poliziotti hanno

preteso 100 dollari da ciascuno di noi. Vogliamo arrivare in Tunisia: ci
hanno detto che da lì prendere la barca per l'Italia è meno pericoloso. In
gennaio

la Tunisia ospita la Coppa d'Africa di calcio. Migliaia di persone andranno
là con la scusa delle partite. Ci saremo anche noi». Billy Osas, 26 anni,
camionista

di Benin City, Nigeria, è disperato. Piange e prega: «Mio padre ha venduto
tutto quello che c'era in casa per farmi partire. Il motorino, il
videoregistratore,

la tv, il frigo. Qui mi hanno detto che per legge dovevo mostrare i soldi.
Così un ufficiale si è preso tutto: 300 dollari. Adesso sono stranded,
bloccato.

Con l'elemosina posso comprarmi solo un po' di acqua zuccherata». Anche
Kofi, 24 anni, era stranded. La mattina del 25 novembre Osas e il suo amico
Johnson

Godwill, 27 anni, nigeriano, sono sconvolti: «Stanotte se n'è andato un
fratello del Ghana. È morto davanti a noi, alle due di notte. Dalle otto di
sera

strisciava per terra per le convulsioni. Supplicavamo i nigerini dell'
autostazione di chiamare un dottore. Invece hanno chiamato la polizia, dopo
sei ore.

Lo conoscevamo come Kofi, 24 anni. Non mangiava da almeno una settimana,
tossiva molto... Questa è l'Africa, amico. In Europa Kofi sarebbe ancora
vivo,

per questo vogliamo scappare da qui».



I soldi nelle scarpe - Il camion per Dirkou parte alle 8, dicono alla
biglietteria. Ma alle 10 è ancora sul piazzale dell'autogare. L'arabo Alham
Boubacar,

capo dell'agenzia di Agadez, ha venduto ogni superficie disponibile. Restano
scoperti soltanto il battistrada delle grandi ruote e il cofano. I più
comodi

stanno seduti sul tetto della cabina o a cavalcioni sulle fiancate. Gli
altri si sono accovacciati sul fondo del cassone. I più sfortunati devono
rimanere

in piedi, o appollaiati su due traverse di ferro, oppure aggrappati a
qualche spigolo. Così fino a Dirkou, in 160, per almeno quattro giorni e
quattro

notti, sotto il sole spietato e il gelo dell'alba. Gli autisti sono due, si
danno il cambio o masticano semi di cola per rimanere svegli. Bill, Adolphus

e Aloshu si sono aggrappati alla traversa di ferro, con i piedi penzoloni
sulle teste che stanno sotto. Osas e Johnson guardano dal marciapiede.
Nemmeno

oggi hanno soldi per partire.

Cinque chilometri, quasi mezz'ora di viaggio e il camion già si ferma. I
poliziotti fanno scendere tutti. È il primo posto di controllo sulla pista
per

il Ténéré. Un ragazzo hausa in mimetica squarcia con un coltello le
intercapedini di canapa che avvolgono i bidoni dell'acqua. Poi si fa
consegnare le

scarpe da un gruppo di passeggeri e taglia in due le suole. Cerca soldi.

Chi è a piedi nudi o in ciabatte, se non paga viene portato dietro al
capanno. Si sentono grida sommesse, colpi, il sibilo di una frusta. Anche
Bill, Adolphus

e Aloshu vengono picchiati sulla schiena con un grosso cavo elettrico. Alla
fine consegnano 10 mila franchi a testa. I poliziotti vogliono di più. Poi

vedono i loro passaporti azzurri e si calmano. Ai nigeriani va peggio. Dopo
un'ora si riparte. In venti restano a terra. Ottanta chilometri più avanti,

aspettano i gendarmi di Tourayatte, l'ultimo villaggio. Ogni volta che si
risale scoppia una rissa. Chi non ne può più, si appropria di un angolo
comodo

del camion. Gli autisti arabi ridono di gusto.

Nella notte Bill, sfinito dalla stanchezza, cade sui passeggeri seduti sotto
di lui. Uno di loro si alza e gli spacca il labbro con la torcia elettrica.

Altri si fanno spazio con la punta di un coltello. Quando è buio, le ruote
seguono le vecchie tracce nella sabbia liquida come l'acqua. Il motore
arranca.

Prima, seconda, prima ridotta. Non più di cinque-dieci chilometri all'ora.
Alle nove di sera il quarto di luna è un Titanic che affonda dentro la linea

nera dell'orizzonte.



La notte nel deserto - C'è un grande traffico di stelle cadenti lassù.
Scintillano attorno all'arco di Orione che, preciso come una lancetta,
indica la

rotta e l'ora della notte. E quando il sole è alto, il paesaggio si scioglie
nei miraggi. Le dune prendono forma in cielo, per poi scendere e avanzare

nel deserto dorato. Dopo tre giorni e mezzo si riempiono i bidoni al pozzo
di Achegour. Il camion si ferma tra miliardi di mosche assetate che
aggrediscono

occhi, naso, bocca per rubare il sapore dell'acqua. Poco più avanti, una
delle tante tombe di chi non ce l'ha fatta. Passa un altro giorno e in
cielo,

dietro a una duna, appare l'oasi di Dirkou.

Elvis Benine, quindici anni, nigeriano di Benin City, è pronto a partire sul
vecchio Mercedes del libico Ahmed El Falouki, trentadue anni, trafficante di

clandestini tra Dirkou e Al Gatrun. Quando vede un europeo nel gruppo, Elvis
gli corre incontro. «Monsieur, do you speak English? - chiede tremando -.

La polizia vuole da me tremila franchi, altrimenti non mi fanno salire. Ma
io ho speso tutto per il biglietto e non ho più soldi». Pochi minuti dopo
Elvis

corre verso i poliziotti con l'ingenuità di un bambino e una banconota di
cinque mila franchi in mano. Un agente in borghese gliela prende e lo
allontana

dal camion. Lui protesta. Il capoposto lo zittisce sventolandogli il
cinturone sulla testa. Continua a colpirlo. Elvis cade ferito, si
raggomitola inciampando

nel filo spinato.

I 152 passeggeri di Ahmed El Falouki guardano in silenzio. Tra loro i
liberiani Ernest Robson, 27 anni, laureato in economia, e il fratello
Victor, 31,

ex impiegato, due papà che potresti vedere in qualunque telefilm sulla
provincia americana. Due settimane fa il loro viaggio fino a Dirkou è stato
tremendo.

Ad Agadez li hanno messi a cuocere sotto il sole.

Poi nella notte una delle sponde del camion è crollata: «Un passeggero -
racconta Ernest - è finito sotto le ruote, altri si sono feriti. Ci hanno
scaricati

nel deserto per riportare il camion a riparare ad Agadez. Il resto del
viaggio io e Victor l'abbiamo fatto abbracciati, tenendoci l'un l'altro, per
paura

di cadere».



La frontiera è chiusa - Il camion di Ahmed El Falouki parte alle cinque di
sera, dal piazzale del commissariato. Elvis Benine resta a terra. Lo stesso
è

successo dodici giorni fa ad Adama Traoré, 25 anni, del Mali, e agli altri
21 bloccati con lui al pozzo di Dao Timmi davanti alla piccola base
militare.

«I soldati ci hanno fatti scendere, convinti che rimanendo sotto il sole
avremmo consegnato un po' dei nostri soldi - dice -. Invece non avevamo
niente

davvero. E adesso non c'è un solo autista che ci porti in Libia. A volte i
militari ci passano un po' di miglio avanzato. Ma non basta per tutti.
Dobbiamo

arrangiarci. Sì, quando la fame è forte... un topo o qualche piccola
locusta».

Ancora una notte e un giorno di viaggio, le rocce bianche di Mabrous, il
fondo di un mare prosciugato, distese, miraggi e laghi fantasma. La pista
porta

davanti a un fortino costruito dalla Legione Straniera, semisommerso nella
sabbia. È Madama, postazione del 24 Battaglione interforze di Agadez, l'
ultima

razzia prima dei militari libici. Duecento corpi affollano l'ombra dell'
unica grande acacia. Sono lì da quattro giorni, stremati e affamati perché
hanno

finito le scatolette di sardine, il latte in polvere, il pane e i biscotti.
La Libia ha chiuso la frontiera. A volte succede quando c'è una festa
nazionale,

o quando l'Italia protesta per i troppi clandestini in arrivo. Solo che qui
siamo in pieno Sahara. Non si può tornare indietro. Ieri qualcuno ha provato

a mangiare la paglia caduta una settimana fa da un camion che trasportava
cammelli. E oggi è piegato in due dalla dissenteria. Poco prima del tramonto

arriva un altro camion, quasi trecento immigrati con le scorte al limite. I
militari armati di mitra fanno il loro lavoro: stranieri in ginocchio con le

mani sulla testa, calci con gli scarponi in mezzo alla schiena, frustate con
i fili elettrici. Il sergente Sani Argika corre a controllare che tutto vada

per il meglio: «Dopodomani forse i libici riaprono - dice - Forse...
Inshallah, se Allah vuole». Quando Tripoli vuole.



PIER LUIGI GIACOMONI