[Pace] "Siamo sotto shock, giacciamo nel sangue e nell’olio bruciato". I soldati ucraini raccontano la controffensiva al Corriere della Sera



Controffensiva ucraina, il giorno più nero: «Mine, droni e sangue. La strategia va cambiata»

di Lorenzo Cremonesi (corriere.it del 31.07.2023)

Il reportage del nostro inviato. Le ore drammatiche dello scorso 7 giugno e le difficoltà dell’avanzata raccontate dai soldati: «Siamo troppo lenti»


ZAPORIZHZHIA - Storie di soldati. Storie crude, come se le possono raccontare tra commilitoni ventenni e uomini meno giovani che stanno in guerra da un anno e mezzo. E storie testimoniate da video di sangue, adrenalina impazzita e morte, non censurati, presi in diretta dagli ucraini nel caos delle esplosioni, del fumo, delle urla e del fracasso. Ad ascoltarle è facile comprendere il motivo per cui tra di loro parlino dell’«Operazione Ü», con un’inflessione gergale che ricorda il richiamo delle mucche tra i pastori delle valli bergamasche, per sottolineare quanto sia stata primitiva, brutale e in fin dei conti sino ad ora tragicamente inefficace questa prima fase dell’offensiva lanciata a inizio giugno dai comandi di Kiev per riconquistare le regioni occupate dall’esercito russo.

I blindati americani

«Alle due di mattina del 7 giugno ci infiliamo negli abitacoli dei Bradley per avanzare verso le linee russe: partenza dalle nostre posizioni a Mala Tokmachka, destinazione quelle nemiche a Tokmak, una quindicina di chilometri più a sud in direzione di Melitopol. Fuori è buio pesto, noi della fanteria ce ne stiamo accovacciati in attesa di uscire all’attacco. Ma il viaggio dura più del previsto. Gli autisti procedono lenti, faticano sotto i tiri dell’artiglieria nemica a restare nei solchi tracciati dagli sminatori e ci sono continui raid di droni, dribblano tra le esplosioni. Poco dopo le cinque il nostro mezzo è colpito, vedo immediatamente il cadavere del comandante, distinguo i due piloti insanguinati. Io con tre compagni balziamo fuori, intravedo una trincea russa a due o tre metri e mi ci butto dentro alla ricerca di un riparo. Odo dal fondo il gracchiare di un walkie talkie abbandonato, parlano in russo con forte accento ceceno e dicono che stanno per venire a riprendere la posizione. Dobbiamo andarcene! Mi dico. In quel preciso momento avverto l’esplosione che mi ferisce alla schiena e sulla spalla sinistra. Tocco l’uniforme: è intrisa del mio sangue.

Due compagni, anche loro feriti, ma più leggermente, mi afferrano sotto le ascelle e mi trascinano verso un altro Bradley venuto in soccorso. L’autista tenta una rapida retromarcia. Ma anche questo è centrato dai missili anticarro. Il comandante muore subito, gli altri non so; siamo sotto shock, odo lamenti, giacciamo nel sangue e nell’olio bruciato. Mezz’ora dopo spira il mio amico Dmitri, che aveva 32 anni, gli chiudo le palpebre. Trascorrono altre due ore, nel mentre ho individuato la radio di bordo e ogni dieci minuti lancio l’allarme: siamo ancora vivi, attendiamo soccorsi. Finalmente giunge un terzo Bradley. Esulto. Ma per pochi secondi. Una bomba credo d’aereo lo colpisce in pieno, brucia veloce, vedo un membro dell’equipaggio strisciare fuori e sparire nell’erba. Dopo altre cinque ore sopraggiunge un M113 trasporto truppa, la battaglia si è spostata più a destra, i russi ci sparano, ma mancano il bersaglio. Sono salvo».

Scuote mestamente la testa mentre racconta e ogni tanto si interrompe con lunghi sospiri il 39enne Ivan Kolomiets: fante del Secondo battaglione della 47esima brigata meccanizzata dispiegata sul fronte meridionale, che incontriamo mentre è in cura nell’ospedale di Zaporizhzhia.

Primo battaglione

Con lui sta il 28enne Viktor Hametz, che è pilota di Bradley nel Primo battaglione della stessa brigata. «Ho fatto addestramento nelle basi Nato in Europa tra gennaio e febbraio. Per fortuna gli americani ci hanno inviato queste autoblindo superprotette, se usassimo i vecchi modelli ereditati dall’esercito sovietico le nostre vittime sarebbero molto più numerose», dice. Anche per lui l’incontro traumatico con le difficoltà dell’offensiva è stato il 7 giugno. «Quel giorno siamo avanzati per quattro o cinque chilometri nel mezzo dei campi minati. Ma presto ci siamo accorti che non eravamo attrezzati per superare le difese formidabili approntate dai russi negli ultimi mesi. Sono trincerati molto bene in bunker di cemento armato, dispongono di molti uomini, godono della copertura aerea, hanno posizionato ovunque telecamere che permettono alle loro sentinelle di individuarci senza essere esposte. Uno dei nostri problemi maggiori è stato e resta che occorrono più sminatori, dobbiamo aprire più varchi allo stesso tempo e molto più velocemente, altrimenti i russi avranno il tempo per organizzare la resistenza e fermarci», ricorda.

Il problema

Loro e altri soldati incontrati in città, compresi alcuni ufficiali che non vogliono farsi identificare, riassumono il problema con una spiegazione molto diffusa: i due eserciti si sono scambiati di ruolo, l’anno scorso i russi avanzavano e gli ucraini si difendevano, ma adesso avviene l’opposto.

Le dinamiche del conflitto si sono profondamente modificate. «Noi oggi incontriamo problemi simili a quelli che avevano i russi di fronte a Kiev. Dobbiamo manovrare un esercito che è molto più grande, con più mezzi da coordinare», dicono. Nessuno però, assolutamente nessuno, accenna ad una eventualità di cessate il fuoco o progetto di compromesso territoriale con Putin in cambio della pace. Affermano: «Dobbiamo studiare sistemi diversi, intanto logoriamo le difese russe; rivediamo le nostre strategie, per esempio usando sminatori appiedati, ma l’unica possibilità di fare la pace arriverà solamente quando avremo liberato tutte le nostre terre».