[Nonviolenza] Telegrammi. 5080



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5080 del 15 gennaio 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Jean-Marie Muller: Lo Stato come violenza istituzionalizzata
2. Il 27 gennaio, "Giorno della memoria", si realizzino ovunque iniziative di studio, di riflessione, di testimonianza e d'impegno
3. Ricordando David Sassoli a due anni dalla scomparsa rinnoviamo la richiesta al parlamento italiano e a quello europeo di portare a compimento il suo impegno per la liberazione di Leonard Peltier
4. A costo di sembrare il solito grillo parlante... (novembre 2023)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: LO STATO COME VIOLENZA ISTITUZIONALIZZATA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo settimo: "Lo Stato come violenza istituzionalizzata" (pp. 141-155). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

Lo Stato e' costituito dall'insieme dalle istituzioni politiche, amministrative, giudiziarie, di polizia e militari che organizzano i poteri e servizi pubblici. La missione specifica dello Stato e' stabilire, mantenere e, se e' il caso, ristabilire la pace civile allo scopo di garantire la sicurezza dei cittadini. L'ordine pubblico non puo' risultare che da una organizzazione costrittiva della societa' che poggia su degli obblighi e dei divieti. Lo Stato esercita un potere di costrizione. In effetti, sarebbe illusorio pretendere di gestire una societa' ricorrendo solo a mezzi di persuasione; in caso di necessita', dei mezzi di costrizione devono poter obbligare gli individui a rispettare il "contratto sociale" che fonda l'ordine e la coesione della citta'.
Esiste un diritto e un dovere di difesa della societa' contro quelli che turbano l'’ordine pubblico. Una societa' di diritto non puo' fare a meno di una giustizia e di una polizia istituzionalizzate, capaci di "mettere in condizioni di non nuocere", cioe' di neutralizzare mediante la "forza pubblica", gli individui e i gruppi che mettono in pericolo la pace civile. Non si potrebbe dunque organizzare una societa' giusta e libera senza riconoscere la legittimita' dell'obbligo della legge e della costrizione della giustizia.
Ma allora si pone una questione il cui peso politico e' decisivo: se la costrizione sociale e l'uso della "forza pubblica" sono necessarie per assicurare la pace civile, quali sono i mezzi legittimi di questa costrizione? Gli Stati rispondono a questo problema rivendicando per se' il monopolio della violenza legittima. "Lo Stato moderno - scrive Max Weber - e' un gruppo di dominio con carattere istituzionale che ha cercato [con successo] di monopolizzare, nei limiti di un territorio, la violenza fisica legittima come mezzo di dominio e che, a questo scopo, ha riunito nelle mani dei dirigenti i mezzi materiali di gestione" (1).
Certo, la costrizione legale (definita dal diritto penale), che puo' implicare la violenza fisica, non e' l'unico mezzo al quale lo Stato ricorre per organizzare la societa'. Lo Stato tuttavia compie raramente un'opera di persuasione; esso ricerca la dissuasione e questa implica una minaccia, che e' gia' una costrizione. Cosi' la costrizione e, come ultima risorsa, la violenza, sono proprio i mezzi specifici dello Stato. Esiste una relazione organica tra lo Stato e la violenza. Questo legame e' irriducibile, e' costitutivo dello Stato.
"Si chiama Stato - afferma Nietzsche - il piu' gelido di tutti i gelidi mostri. Esso e' gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: "Io, lo Stato, sono il Popolo"" (2). In effetti, e' il concetto di popolo sovrano che si trova a fondamento di quello di Stato sovrano, ma la sovranita' del popolo e' un concetto totalizzante che porta in germe quello dello Stato totalitario. Di conseguenza, per costruire la democrazia e' importante non soltanto rifiutare la sovranita' dello Stato, ma ugualmente la sovranita' del popolo. Quando Jean-Jacques Rousseau, la cui influenza fu determinante sulla dottrina dello Stato elaborata dai regimi usciti dalla rivoluzione del 1789, afferma che le clausole del "contratto sociale" "si riducono tutte a una sola, cioe' l'alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunita'" (3), egli fonda la dittatura della "comunita'" su "ogni associato". Rousseau e' proprio "il profeta dello Stato dottrinario" che Bakunin vedeva in lui (4). Jacques Maritain, la cui ispirazione filosofica non attinge alle stesse sorgenti di quella di Bakunin, da' lo stesso giudizio: "Rousseau, che non era un democratico, ha introdotto nelle nascenti democrazie moderne una nozione della Sovranita' che era distruttrice della democrazia e tendeva verso lo Stato totalitario. [...] Se vogliamo pensare in un modo consistente in materia di filosofia politica, dobbiamo respingere il concetto di Sovranita' che fa una cosa sola col concetto di Assolutismo" (5).
Cosi' la sovranita' del popolo e' piu' una minaccia che una garanzia per la liberta' del cittadino: essa implica che egli rinunci alla sua autonomia per sottomettersi ad una pretesa "volonta' generale", che puo' obbligarlo a morire sacrificandosi per "l'interesse generale". "E' un principio di tutti i governi – scrive dolorosamente Jean Guehenno - che un soldato deve essere docile e disposto facilmente ad uccidere" (6). E' in effetti nell'organizzazione del servizio militare che la presa dello Stato sul cittadino si manifesta con la piu' grande forza. E' significativo che la coscrizione obbligatoria e il suffragio universale siano state stabilite nello stesso tempo nelle societa' moderne. "Come un contagio - osserva Taine alla fine del XIX secolo - la coscrizione si e' propagata da uno Stato all'altro; oggi essa ha conquistato tutta l'Europa continentale, e vi regna col compagno naturale che sempre la precede o la segue, con il suo fratello gemello, il suffragio universale, ciascuno dei due piu' o meno incompleto o mascherato, tutt'e due conduttori o regolatori ciechi e formidabili della storia futura, uno mettendo nelle mani di ogni adulto una scheda di voto, l'altro mettendo sulla schiena di ogni adulto uno zaino da soldato" (7). Tutto e' avvenuto come se lo Stato avesse stabilito una convenzione con i cittadini scambiando con loro il diritto elettorale contro il dovere militare. Ma, come ha sottolineato Georges Bernanos, e' lo Stato che ne e' risultato il principale beneficiario: "La coscrizione obbligatoria era per lo Stato un beneficio reale, concreto. Invece, il diritto di voto, nelle mani dell'individuo destituito e diventato proprieta' della nazione allo stesso titolo di tutto il resto del materiale di guerra, non era molto piu' che una illusione" (8). Bernanos afferma che questa convenzione fu per i cittadini un mercato dei gonzi: "I Francesi volevano la liberta', la volevano con tutto il loro cuore, la volevano per tutto il mondo. Hanno creduto che, chiamati ad eleggere i loro padroni, fossero padroni dello Stato e che, da quel momento, fortificando lo Stato essi fortificassero se stessi. [...] Il suffragio universale non fa gli uomini piu' liberi di quanto la lotteria li faccia ricchi. Quello che rende liberi i popoli, e' lo spirito di liberta'" (9). Lo Stato, in effetti, si e' molto piu' preoccupato di costringere gli  individui a fare i loro doveri di soldato che di obbligare se stesso a rispettare i loro diritti di cittadino. "Tra molte imprese - ironizza Bernanos - la democrazia non e' mai riuscita a condurre a buon fine altro che l'istituzione della guerra democratica. Il governo di tutti da parte di tutti resta nelle nuvole dell'avvenire, ma la guerra di tutti fatta da tutti, questa, voi non l'avete fallita. [...] La guerra di tutti e' incompatibile col governo di tutti ed e' a questo punto che la guerra democratica resta l'affare delle dittature e particolarmente di questa forma essenziale di dittatura che e' la dittatura delle coscienze" (10).
Per evitare la trappola totalitaria conviene rifiutare con forza ogni concezione organica della societa', nella quale la funzione di ogni individuo si trova definita secondo i bisogni della collettivita'. Allora, la persona non esiste piu' da e per se' stessa ma da e per la societa'; essa dev'essere sottomessa alle leggi che regolano il buon funzionamento del corpo sociale. L'ordine, l'armonia e l'unita' del tutto giustificano la sottomissione di tutti. Colui che rifiuta di sottomettersi dev'essere eliminato per evitare ogni contagio. Una tale concezione della societa', che ha ispirato tante e tante dottrine politiche, da' alla societa' tutti i diritti e all'uomo tutti i doveri. Essa distrugge ogni autonomia della persona e non lascia sussistere che il potere dello Stato monolitico. "E' l'uomo – afferma Nicolaj Berdjaev – che e' un organismo di cui la societa' e' un organo, e non il contrario" (11).
L'ideologia dell'unita', che e' allo stesso tempo l'ideologia della totalita', genera naturalmente un'ideologia della potenza, del dominio e della violenza. L'uomo di Stato o, piu' precisamente, l'uomo dello Stato, e' ossessionato dall'unita' del tutto e arriva cosi' all'ossessione del violento. "Per il violento – scrive Roland Sublon – tutto viene dall'Uno e tutto deve tornare all'Uno" (12). Sublon riflette sul significato del mito di Narciso, del suo rapporto con il potere e la violenza. Narciso e' il giovane della leggenda greca che, disprezzando gli altri, non e' capace di innamorarsi che della propria immagine: "E' Lui o niente, e lui e' Tutto; l'altro, nel caso migliore, e' il nemico" (13). L'uomo al potere resiste poco alla tentazione di diventare simile a Narciso. Egli non ama che se stesso, non ascolta che la propria verita' e, per conseguenza, non esita a usare violenza verso chiunque non lo ama e non si sottomette alla sua verita'. "Fate che una alterita' appaia da qualche parte e la violenza nascosta divampa in piena luce. Ecco che sono messe in moto le manovre che mirano a riportare tutto ad un punto, e le strategie che dispiegano la loro opera di riduzione. Bisogna ridurre l'altro, bisogna cancellare le differenze, mettere la museruola alla parola, ricondurre quelli che sbagliano, rieducare quelli che s'ingannano, sopprimere i guastafeste. Narciso cambia, il suo sorriso seduttore si trasforma in ghigno. Tira fuori dai suoi cassetti manette e bavagli, drizza i suoi cavalletti di tortura e non si ferma prima che la venga la Verita', per un istante messa in questione. Il violento difende l'Eguaglianza e la Fraternita', corre dietro al Medesimo, ma e' la morte che l'ossessiona" (14).
Il numero Uno e' il simbolo della violenza, e il numero Tre simboleggia la nonviolenza. In altre parole, la violenza e' il trionfo dell'Uno, mentre la Nonviolenza e' l'unione dei Tre. Il numero Due, che esprime il faccia-a-faccia di due individui che rischiano di non coniugare altro che i loro individualismi, e' troppo povero per simboleggiare una vera unione.
Una societa' di liberta' e' plurale; solo una societa' totalitaria e' una. Moisei Ostrogorski afferma che il principio vitale del nuovo ordine politico instaurato dalla rivoluzione democratica e' "il principio dell'unione sostituito a quello dell'unita'" (15). "Ne' nella sfera religiosa – egli scrive - ne' nella societa', ne' nello Stato, e' piu' possibile l'unita' dopo che si e' aperta l'era della liberta', dove le idee e gli interessi cercano di affermarsi in tutta la loro varieta'. Elementi sociali diversi non possono essere mantenuti nell'unita' che per mezzo della tirannia, che sia quella armata di gladio o quella morale iniziata con la teocrazia e continuata sotto la forma delle convenzioni sociali" (16). Dunque, per evitare che la tirannia giunga a fare scomparire questa varieta' delle idee e degli interessi, bisogna permettere ai disaccordi e ai conflitti di esprimersi. Il compito del potere politico e' di gestire i conflitti e non di sopprimerli. La democrazia e' conflittuale perche' il conflitto permette il riconoscimento e il rispetto delle differenze.
Il fondamento di un governo democratico non e' la volonta' generale del popolo definita come un'entita' immutabile che esercita un potere assoluto sugli individui, bensi' l'accordo a cui pervengono i cittadini attraverso il libero confronto delle loro volonta' particolari. Questo accordo non puo' essere ottenuto su ogni cosa e una volta per sempre; per sua natura, si trova incessantemente rimesso in causa e deve rinnovarsi continuamente secondo l'evoluzione dei fatti e delle idee. Inoltre, con ogni probabilita', su ogni questione dibattuta l'accordo realizzato non sara' che quello di una maggioranza. Ancora, questo accordo parziale non deve porre un termine al dibattito; quelli che si trovano fuori da questa maggioranza devono conservare tutta la liberta' di continuare a far valere le loro idee. Non si tratta, d'altra parte, di ricercare una maggioranza di idee che avrebbe, per tutto il tempo di un mandato, ogni potere di decidere su ogni questione – cio' che sarebbe ancora volere imporre una unita' di facciata all'insieme dei cittadini – ma di ricercare delle maggioranze di idee su ogni questione da dibattere. Il contratto sociale originario deve garantire la possibilita' effettiva di produrre piu' contratti sociali differenziati, cioe' – come sottolinea Ostrogorski – esso deve stabilire che "i membri della societa', tutti uguali in linea di diritto, non useranno la forza nelle loro relazioni, ma negozieranno un'intesa ogni volta che la vita sociale avra' sollevato un problema d'interesse comune, e che l'intesa raggiunta avra' valore di legge" (17). Certo, l'unione contrattuale e' piu' difficile dell'unita' forzata, ma la democrazia poggia precisamente sul rispetto di questa difficolta' e sul rifiuto di sopprimerla con il ricorso alla violenza.
Lo Stato fonda la legittimita' della propria violenza sulla necessita' di opporsi efficacemente alla violenza degli individui e dei gruppi sociali che turbano l'ordine pubblico. Certo, esistono situazioni limite in cui si rivela difficile, o anche impossibile, ristabilire l'ordine pubblico senza ricorrere alla violenza. Ma si fa subire al pensiero politico una grave distorsione se si prende pretesto da questi casi limite in cui la violenza puo' essere necessaria, per costruire una dottrina che conferisce allo Stato il diritto di ricorrere normalmente alla violenza fisica per assicurare la pace civile. Dal momento che i cittadini hanno concesso una volta per tutte allo Stato il diritto di ricorrere alla violenza per mantenere l'ordine pubblico, sara' facile per lo Stato invocare questo diritto per difendere la sua propria "sicurezza" contro i cittadini nell'esercizio della loro funzione. Superata questa soglia – e la storia ci mostra che non e' affatto un'ipotesi scolastica – lo Stato non costituisce piu' una garanzia per la sicurezza dei cittadini, ma una minaccia per essa. Poiche' l'ordine  statale tende a normalizzare anche le opinioni, lo Stato e' continuamente tentato di criminalizzare la dissidenza e di reprimerla come un delitto. La storia ufficiale dello Stato, come quella della guerra, e' scritta dai sopravvissuti e dai vincitori. Essa fa rientrare in un calcolo di costi e benefici le vittime innocenti dello Stato che si trovano condannate all'anonimato e all'oblio.
Ogni societa', tuttavia, deve dotarsi di una polizia incaricata di "mantenere l'ordine" e "far rispettare le leggi". La parola "polizia" ha la stessa etimologia della parola "politica" e si collega al governo della "citta'/polis". Lo scopo dell'azione della polizia, come quello dell'azione politica, e' di pacificare la vita sociale, cioe' di costruire una societa' libera dal dominio della violenza. Funzione della polizia e' di concorrere a garantire le liberta' dei cittadini, a far rispettare i loro diritti e ad assicurare la loro sicurezza. Letteralmente, i poliziotti devono essere "agenti di pace", cioe' devono "fare la pace" fra gli individui e i gruppi che vivono nella stessa citta'. La polizia ha per compito essenziale di prevenire e, se del caso, risolvere i conflitti ricorrendo ai metodi nonviolenti di interposizione, di mediazione e di riconciliazione.
La polizia puo' essere condotta dagli eventi a dover usare metodi di "incarcerazione per debiti" – nel senso letterale del termine - al fine di neutralizzare dei promotori di violenza e metterli in condizione di non nuocere. Esistono situazioni particolari in cui e' difficile, o addirittura impossibile, neutralizzare, senza ricorrere alla violenza, uno o piu' individui armati che minacciano la vita altrui. Tuttavia, anche in quelle circostanze, tutto dev'essere tentato per disarmare e catturare il o i malfattori evitando di ferirli o ucciderli. Se, malgrado tutto, c'e' la morte di un uomo per opera della polizia, si tratta di uno scacco che proibisce ogni "comunicato di vittoria". Se la polizia fallisce nel ristabilire la pace sociale senza utilizzare la violenza omicida, la societa' tutta intera condivide la responsabilita' di questo scacco. Una democrazia comincia a negare se' stessa quando rifiuta di riconoscere la propria violenza come uno scacco. Converrebbe domandarsi se non sarebbe possibile istituire un rito pubblico, nel corso del quale, ogni volta che l'uso della forza pubblica abbia causato la morte di un uomo, un rappresentante della Repubblica (per esempio il prefetto) riconoscesse che l'esercizio della violenza mortale, anche se e' stata necessaria, e' sempre un dramma, una disgrazia, uno scacco e deve essere pertanto vissuta in atteggiamento di "lutto".
L'esistenza di casi limite, in cui s'impone la necessita' di ricorrere alla violenza, non puo' servire di pretesto per riabilitare la violenza come mezzo abituale per assicurare l'ordine pubblico e ristabilire la pace sociale. Perche' l'eccezione non diventi la regola, ma venga piuttosto a confermarla, bisogna essere ancora piu' rigorosi nel rispetto di quest'ultima. E la regola deve essere la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
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La violenza del sistema penale
Una delle funzioni rivendicate dallo Stato, in nome della legittima difesa dei cittadini, e' di arrestare, giudicare e condannare coloro che hanno disobbedito alla legge e attentato all'ordine pubblico. Ma, al tempo stesso, lo Stato rivendica il diritto di ricorrere esso stesso alla violenza per punire la violenza. La storia della repressione dei crimini da parte dello Stato e' forse piu' spaventosa che la storia dei crimini. Simone Weil ha denunciato la violenza con la quale lo Stato esegue il proprio compito di giustiziere. Molto spesso – ella afferma -  una condanna pronunciata dall'apparato della giustizia penale e' "un crimine contro l'umanita'" (18): cioe', non si tratta che "della piu' bassa vendetta" (19). Sotto pretesto di disprezzare il crimine, la societa' disprezza il criminale, che viene schiacciato dalla sventura. L'uomo caduto nella mani dell'apparato penale diventa "agli occhi di tutti e ai suoi stessi occhi, una cosa vile, un oggetto di rifiuto" (20).
Secondo Simone Weil, una delle piu' gravi disfunzioni della repressione punitiva e' il fatto che essa dimostra la piu' grande severita' verso quelli che la societa' ha sfavorito e la piu' grande indulgenza verso quelli che la societa' ha privilegiato. Una vera giustizia esigerebbe tutto il contrario: "Per le colpe come per i crimini, il grado di impunita' deve aumentare non quando si sale nella scala sociale, ma quando si scende" (21). Cosi', uno dei problemi politici piu' difficili da risolvere e' impedire che "si stabilisca in alto una cospirazione in vista di ottenere l'impunita'" (22). Simone Weil auspica che molti uomini abbiano l'incarico di impedire una tale cospirazione, ma bisognerebbe anche che essi fossero abbastanza integri per non essere tentati di farne essi stessi parte.
In una societa' teocratica dove la legge penale si ispira ad una legge religiosa, dove i tribunali degli uomini pretendono di emettere il giudizio stesso di un dio giustiziere, la sanzione vuol essere un castigo inflitto al colpevole in espiazione della sua colpa, e la storia delle religioni ci mostra fino a quali crudelta' possono condurre tali principi. Nella sua enciclica Evangelium vitae, Karol Wojtyla si attiene ad una tale concezione espiatoria della giustizia, quando scrive: "I poteri pubblici devono essere severi con la violazione dei diritti personali e sociali, attraverso l'imposizione al colpevole di una espiazione adeguata alla colpa, condizione richiesta per essere riammessi a godere la liberta'. In questo senso, l'autorita' raggiunge anche l'obiettivo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (23). In una societa' democratica, e quindi laica, i poteri pubblici non devono avere altro obbiettivo che "difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone". La funzione della giustizia non e' punire una colpa, ma giudicare un delitto, non e' castigare un colpevole, ma mettere in condizione di non nuocere un uomo pericoloso. La sanzione penale non deve dunque comportare alcun castigo, alcuna violenza corporale verso il delinquente. Ora, la prigione, cosi' come e' ancora nelle nostre societa', resta un castigo corporale che, da lungo tempo, avrebbe dovuto essere abolito dalla democrazia (la prigione non e' forse ancora considerata come un "penitenziario", cioe' a rigor di termine, come in un luogo che si fa penitenza?).
La sanzione penale che priva il delinquente della sua liberta' detenendolo in prigione, ha la finalita' di prevenire nuovi delitti, da una parte impedendo la recidiva del delinquente e, dall'altra parte, dissuadendo i potenziali delinquenti di passare all'atto. La societa' ha in effetti il diritto e il dovere di esercitare verso gli individui che turbano l'ordine pubblico una costrizione legale - letteralmente una "incarcerazione per debiti" - che neutralizzi la loro capacita' di nocivita' sociale. Non e' possibile organizzare una societa' di diritto senza definire dei delitti e senza stabilire delle sanzioni. Ma, nello stesso momento che la sanzione penale deve permettere alla societa' di difendersi, essa deve permettere al delinquente di reinserirsi nella societa'. Se il delinquente perde alcuni dei suoi diritti nella societa', questa non perde alcuno dei suoi doveri a suo riguardo. Non si tratta di dibattere per sapere se il delinquente merita di essere trattato con umanita'; la societa' ha il dovere verso se' stessa di trattarlo con umanita'. Alla inumanita' del delitto deve rispondere l'umanita' della sanzione. Se conviene giudicare il crimine secondo i rigori della giustizia, e' importante trattare il criminale secondo le esigenze della bonta'. Non si tratta di essere indulgenti verso il criminale, ma di essere buoni.
Lo scopo della sanzione, specialmente della detenzione quando questa si rivela necessaria, deve essere il reinserimento del delinquente nella societa', cioe' la sua ri-socializzazione. Ora, tutto concorre a fare della prigione un luogo di esclusione sociale, cioe' di de-socializzazione. Le condizioni della detenzione in prigione hanno molteplici effetti perversi sulla personalita' del prigioniero. Proibendogli ogni comunicazione con altri e privandolo di ogni responsabilita', gli si impongono dei comportamenti regressivi che tendono a disintegrare la sua persona. La prigione e' una struttura inumana che disumanizza il detenuto. Quando sara' rimesso in liberta', avra' le piu' grandi difficolta' a ritrovare il suo posto nella societa'. E' un fatto debitamente provato da tutte le inchieste e verificato da tutte le statistiche: la prigione e' una scuola di recidiva. E' dimostrato che la sanzione carceraria non ha sul delinquente l'effetto dissuasivo ricercato. Del resto, e' abbastanza naturale che la prigione impressioni soprattutto quelli che non sono per nulla tentati dalla delinquenza. Allora, se e' incontestabile che l'incarcerazione dei "piccoli delinquenti" non fa che aumentare le probabilita' di recidiva, perche' i tribunali continuano a mandarli in prigione? Certo, essi applicano le leggi, ma non sono forse liberi dalla loro giurisprudenza? Tutto avviene in realta' come se i giudici stessi fossero prigionieri dell'ideologia carceraria e temessero l'accusa di lassismo che l'opinione pubblica e' pronta a lanciare contro di loro.
Davanti allo scacco manifesto della repressione carceraria della delinquenza, la societa' e' sfidata a mettere in opera verso di essa un trattamento sociale. La detenzione non deve essere che l'ultima risorsa quando e' necessario neutralizzare i "grandi delinquenti" la cui pericolosita' sociale e' verificata. Per gli altri, che sono di gran lunga i piu' numerosi, e' certamente possibile evitare l'ingranaggio del sistema penale per mezzo di quella che gli anglosassoni chiamano la "diversione giudiziaria". Si tratta non soltanto di evitare la prigione, ma anche il tribunale mediante la sospensione dell'azione penale. Tocca allora a dei "mediatori" tentare di riconciliare gli autori del delitto con le vittime. Cosi', per le infrazioni contro la proprieta' (furti o danneggiamenti), l'obiettivo da raggiungere e' la restituzione o la riparazione e un indennizzo per i danni causati. Se la mediazione fallisce, l'azione penale diventa necessaria, ma, nel maggior numero dei casi, delle pene che non privano della liberta' - come l'obbligo di compiere dei lavori di interesse pubblico - permettono ancora di evitare l'incarcerazione.
Per quelli la cui detenzione si rivela necessaria, lo scopo ricercato deve rimanere la riabilitazione sociale. Conviene rinunciare alle grandi prigioni di molte centinaia di detenuti. Il solo criterio considerato per organizzare delle simili centrali e' l'efficacia della sorveglianza, e il solo scopo cercato e' evitare l'evasione. In queste condizioni, tutta la vita del detenuto e' sottomessa alla logica della repressione e niente ne prepara il reinserimento sociale. Sarebbe meglio orientarsi verso la realizzazione di piccole unita' che permettano di unire alle misure di sicurezza delle misure di socioterapia. Ma un tale programma implica che i cittadini non abdichino alla loro responsabilita' col domandare allo Stato di fare sparire i delinquenti dietro muri i piu' alti possibile, e che invece accettino di farsi carico del loro reinserimento.
La giustificazione della pena di morte si inscrive nella logica "espiatoria" della giustizia penale. E' notevole che, anche nelle societa' dove la pena di morte e' stata soppressa, l'opinione pubblica le rimane generalmente favorevole. Essa continua a reagire di fronte ai "criminali" secondo la logica che giustifica il castigo supremo e reclama la legge del taglione: "frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente" (24) e dunque "morte per morte". Essa brandisce il rispetto della vittima per esigere l'uccisione dell'assassino. Essa grida vendetta e s'indigna appena le sembra che il criminale benefici di un trattamento di clemenza, cioe' di umanita'. Questa reazione passionale e' animata da un vero desiderio di violenza che fa fallire le proclamazioni "umaniste" della civilta'. Giustificare la pena di morte e' decidere di negare una volta per tutte il carattere trascendente e sacro della vita umana. Se la vita del criminale non e' sacra, la vita dell'uomo non e' sacra affatto.
Non si tratta di tentare di provare che la pena di morte non e' dissuasiva; non si tratta neppure di domandarsi quale pena conviene sostituirle. La pena di morte e' impossibile perche' e' impensabile. Essa e' impensabile, perche' pensare la pena di morte e' accettare l'uccisione di un uomo diventato "in-nocente" cioe', letteralmente, che si trova nell'incapacita' di nuocere. Neppure la necessita', che s'invoca in una situazione di legittima difesa, puo' qui servire di pretesto per accettare di uccidere.
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Mantenere la violenza "fuori legge"
Istituzionalizzando la violenza come mezzo normale (cioe', che serve da norma) e regolare (che serve da regola) di gestire gli inevitabili conflitti che sorgono nel seno della societa', lo Stato da' alla violenza diritto di cittadinanza. Di conseguenza, e' l'insieme dei rapporti sociali che si trova contaminato dalla logica della violenza. In democrazia lo scopo primo della politica e' mettere la violenza fuori legge; ma in quel modo lo Stato va contro questo scopo, mettendo la violenza nella legge.
Certo lo Stato democratico e lo Stato totalitario non presentano lo stesso volto e non meritano lo stesso giudizio. Ma, se il loro rapporto con la violenza e' differente nella pratica, non lo e' veramente nella teoria. Tra la dottrina dello Stato liberale e quella dello Stato totalitario c'e' continuita'. Questa procede da quella; questa dottrina (dello Stato totalitario) prende da quella non soltanto l'essenziale della sua argomentazione, ma anche l'essenziale del suo arsenale tecnico. "Non e' naturale al Potere di essere debole - scrive Bertrand de Jouvenel -. [..] Un uomo, un gruppo, possono allora, impadronendosi del Potere, impiegare le sue leve senza timidezza. [...] La "stanza dei bottoni" era costituita, essi non fanno che servirsene. [...] Gli artigli e le unghie che allora il Potere fa sentire sono spuntate durante la stagione democratica. Esso mobilita la popolazione, ma e' in periodo democratico che e' stato posto il principio dell'obbligo militare. [...] Il Potere poliziesco stesso, che e' l'attributo piu' insopportabile della tirannia, e' cresciuto all'ombra della democrazia" (25). Lo Stato liberale e' esso stesso sotteso da un'ideologia della violenza necessaria e legittima, che porta gia' in se' l'ideologia che servira' allo Stato totalitario per affermare la propria legittimita'. "Il cancro dello Stato - scriveva Emmanuel Mounier nel suo Manifesto al servizio del personalismo, pubblicato nel 1936 - si forma nel seno stesso delle nostre democrazie. [...] Lo statalismo "democratico" scivola nello Stato totalitario come il fiume nel mare" (26). "Ogni Stato centralizzato e sovrano - scrive per parte sua Simone Weil - e' conquistatore e dittatoriale in potenza, e diventa effettivamente tale nella misura in cui crede di averne la forza" (27). La macchina burocratica fabbricata dallo Stato liberale e' sempre pronta a servire un regime totalitario. Le garanzie costituzionali e legali potranno restare; bastera' che esse restino lettera morta. La storia ci mostra spesso che la democrazia e' duramente e durevolmente maltrattata dalle violenze degli agenti dello Stato contro i cittadini, proprio quando essi pretendono di agire per mantenere la pace civile.
La ragion di Stato sceglie troppo spesso di ignorare le ragioni della democrazia. Non e' forse il ministro dell'interno di un governo francese che piu' liberale non si puo', che affermo' in televisione il 26 febbraio 1987: "La democrazia si ferma dove comincia l'interesse dello Stato"? Certo, gli uomini di Stato sono generalmente piu' discreti ma, dicendo questo, il ministro francese, Charles Pasqua, non confessava forse una regola inconfessata della pratica di tutti gli stati? Quando l'ideologia securitaria, in nome delle necessita' dell'ordine, fa lo Stato innocente dei suoi atti di violenza, allora fa nascere la tirannia. L'ideologia della violenza legittima genera e nutre le dottrine dello Stato totalitario. Per combattere queste bisogna cominciare col ricusare quella, fino dal primo momento in cui appare, ovattata e ben intenzionata, nel seno delle dottrine dello Stato democratico. La filosofia politica della nonviolenza rifiuta le dottrine dello Stato in questo, che esse generano da se' stesse un processo di legittimazione ideologica della violenza, cio' che costituisce una minaccia per la democrazia.
La nonviolenza postula una trasformazione profonda e costante dello Stato nella misura stessa in cui essa mira a risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza. Tuttavia, un tale processo non potrebbe condurre alla scomparsa di ogni potere politico di costrizione. Voler costruire una societa' senza governo, senza leggi, senza polizia, senza giustizia, appartiene all'utopia. Una tale societa', se fosse mai istituita, si destrutturerebbe subito sotto l'effetto della forza dissolvente degli individualismi e dei particolarismi. Cosi', il progetto di societa' che si ispira alla filosofia della nonviolenza mira a istituire un potere politico di regolazione, di coordinamento, di mediazione, di arbitrato e, se e' il caso, di costrizione, un potere che sia un "equivalente funzionale" dello Stato, ma che, per il rigore e la chiarezza dei concetti, ci sembra preferibile non chiamare piu' Stato. Un tale potere politico, in effetti, si differenzierebbe profondamente dallo Stato nel rapporto con la violenza. Piuttosto di sopprimere i conflitti con la violenza, si sforzerebbe di assumerli e di risolverli con la nonviolenza. Questo sforzo dovrebbe radicarsi in una volonta' politica tenace e incarnarsi in soluzioni tecniche suscitate da una vigorosa inventiva istituzionale. Queste soluzioni non potrebbero essere trovate in un qualunque manuale teorico, ma dovrebbero essere messe in atto progressivamente attraverso molteplici sperimentazioni sociali, che non sarebbero condotte al margine della societa' ma costituirebbero un investimento istituzionale prioritario.
La nonviolenza politica non potrebbe essere assoluta: essa e' necessariamente relativa, cioe' in relazione agli uomini, alle situazioni, agli eventi. Non si tratta, dunque, di partire dall'idea pura di una societa' perfetta per tentare poi di appiccicarla sulla realta'. Si tratta, a partire dalla realta' delle violenze, di creare una dinamica che punta a limitarle, a ridurle, e, per quanto possibile, ad eliminarle.
Esiste una reazione a catena delle violenze economiche, sociali, culturali, politiche, poliziesche e militari, che e' impossibile interrompere dato che, in uno o l'altro momento di questo processo, la violenza si trova legittimata da un'ideologia. Per rompere la logica della violenza, la sola via e' perseguire una dinamica che inverta il processo di sviluppo violento dei conflitti. E' questa dinamica che la filosofia politica della nonviolenza ci invita a mettere all'opera.
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Note
1. Max Weber, Le savant et le politique, op. cit., p. 108.
2. Friedrich Nietzsche, Ainsi parlait Zarathoustra, op. cit., p. 61; tr. it. Cosi' parlo' Zarathustra, due volumi, versione di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, vol. I, p. 54.
3. Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, Livre I, chapitre VI, "Du pacte social"; tr. it. di Maria Perticone, Il contratto sociale, Mursia, Milano 1965, p. 30.
4. Michail Bakounine, La liberte', Paris, J.-J. Pauvert, 1965, p. 56; tr. it. M. Bakunin, Liberta', uguaglianza, rivoluzione, Antistato, Milano 1976.
5. Jacques Maritain, L'homme et l'Etat, Paris, PUF, 1965, p. 41-43; tr. it. L'uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 53 e 56; ultima edizione Marietti 2003.
6. Jean Guehenno, La mort des autres, Paris, Grasset, 1968, p. 23.
7. Hippolyte Taine, citato da Bernard de Jouvenel, Du pouvoir, Paris, Hachette, 1977, coll. Le Livre de Poche, p. 30.
8. Georges Bernanos, Le chemin de la Croix-des-ames, Paris, Gallimard, 1948, p. 108.
9. Ibidem.
10. Georges Bernanos, Les enfants humilies, Paris, Gallimard, 1949, p. 62.
11. Nicolas Berdiaeff, De l'esclavage et de la liberte', Paris, Aubier, 1963, p. 121; tr. it. Schiavitu' e liberta' dell'uomo, 1947.
12. Roland Sublon, "Narcisse au service du pouvoir", Cahiers de la reconciliation, fevrier 1979, p. 14.
13. Ibidem, p. 15.
14. Ibidem, p. 15-16.
15. Moisei Ostrogorski, La democratie et les partis politiques, Paris, Le Seuil, 1979, coll. Points, Politique, p. 221.
16. Ibidem, p. 218.
17. Ibidem, p. 226.
18. Simone Weil, Cahiers III, op. cit., p. 319.
19. Simone Weil, Ecrits de Londres, Paris, Gallimard, 1957, p. 41.
20. Simone Weil, Attente de Dieu, op. cit., p. 142.
21. Simone Weil, L'enracinement, op. cit., p. 34.
22. Ibidem.
23. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, par. 56.
24. Levitico, 24, 20.
25. Bertrand de Jouvenel, Du pouvoir, Paris, Librairie Hachette, Le Livre de Poche, coll. "Pluriel", p. 35-36.
26. Emmanuel Mounier, Oeuvres, tome I, 1931-1939, Paris, Le Seuil. 1961, p. 614; tr. it. del Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica Editrice, Bari 1982.
27. Simone Weil, Ecrits historiques et politiques, op. cit., p. 58.

2. INIZIATIVE. IL 27 GENNAIO, "GIORNO DELLA MEMORIA", SI REALIZZINO OVUNQUE INIZIATIVE DI STUDIO, DI RIFLESSIONE, DI TESTIMONIANZA E D'IMPEGNO

Il 27 gennaio, "Giorno della memoria", si realizzino ovunque iniziative di studio, di riflessione, di testimonianza e d'impegno.
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Testo della Legge 20 luglio 2000, n. 211: "Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"
Art. 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonche' coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto e' accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinche' simili eventi non possano mai piu' accadere.
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Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Il razzismo e' un crimine contro l'umanita'.
Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni, opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni, opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni.
Salvare le vite e' il primo dovere.

3. APPELLI. RICORDANDO DAVID SASSOLI A DUE ANNI DALLA SCOMPARSA RINNOVIAMO LA RICHIESTA AL PARLAMENTO ITALIANO E A QUELLO EUROPEO DI PORTARE A COMPIMENTO IL SUO IMPEGNO PER LA LIBERAZIONE DI LEONARD PELTIER

Due anni fa, l'11 gennaio 2022, moriva David Sassoli, indimenticabile presidente del Parlamento Europeo e persuaso difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani.
Pochi mesi prima aveva espresso pubblicamente il suo impegno per la liberazione di Leonard Peltier, l'illustre attivista nativo americano difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e dell'intero mondo vivente, ormai da 48 anni prigioniero innocente.
Il 23 agosto 2021 David Sassoli tenne una conferenza stampa in cui annuncio' il suo personale impegno per la liberazione di Leonard Peltier.
L'iniziativa di David Sassoli si ricollegava idealmente a due precedenti importanti pronunciamenti del Parlamento Europeo, del 1994 e del 1999.
E si collegava anche al movimento che in Italia in quel momento riproponeva con forza l'esigenza e l'urgenza che Leonard Peltier venisse finalmente liberato.
In un suo tweet che accompagnava e sintetizzava la conferenza stampa del 23 agosto 2021 David Sassoli dichiarava, in italiano e in inglese:
"Inviero' una lettera alle autorita' statunitensi chiedendo clemenza per Leonard Peltier, attivista per i diritti umani dell'American Indian Movement, in carcere da 45 anni.
Spero che le autorita' accolgano il mio invito. I diritti umani vanno difesi sempre, ovunque".
"I will send a letter to the US authorities asking for clemency for Leonard Peltier. A human rights activist of the American Indian Movement, he has been imprisoned for 45 years.
I hope the authorities will take up my invitation. Human rights must be defended always, everywhere".
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Lanciamo un appello a riprendere e portare a compimento quell'iniziativa di David Sassoli per la liberazione di Leonard Peltier.
Nel ricordo di David Sassoli chiediamo ancora una volta al parlamento italiano e a quello europeo di portare a compimento il suo impegno per la liberazione di Leonard Peltier.
La medesima richiesta rivolgiamo ancora una volta ad ogni persona di volonta' buona e ad ogni umano istituto impegnato per la pace, la democrazia, i diritti umani e la difesa della biosfera: giunga al Presidente degli Stati Uniti d'America la richiesta corale dell'umanita' intera di concedere finalmente la grazia presidenziale che restituisca la liberta' a Leonard Peltier.


4. REPETITA IUVANT. A COSTO DI SEMBRARE IL SOLITO GRILLO PARLANTE... (NOVEMBRE 2023)

Ci sono alcune cose che vanno pur dette, e allora diciamole.
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Ogni manifestazione a favore dell'esistenza dello stato di Israele che non s'impegni anche per la nascita dello stato di Palestina rischia di essere inutile.
Ogni manifestazione a sostegno del popolo palestinese che non s'impegni anche a sostegno del popolo ebraico rischia di essere inutile.
Ogni manifestazione che condanni le stragi commesse da un'organizzazione terrorista e non quelle commesse da uno stato e' peggio che inutile.
Ogni manifestazione che condanni le stragi commesse da uno stato e non quelle commesse da un'organizzazione terrorista e' peggio che inutile.
*
Sia il popolo palestinese che il popolo ebraico sono realmente minacciati di genocidio.
E' compito dell'umanita' intera impedire questi genocidi, tutti i genocidi.
Per impedire il genocidio del popolo ebraico e' indispensabile l'esistenza dello stato di Israele.
Per immpedire il genocidio del popolo palestinese e' indispensabile l'esistenza dello stato di Palestina.
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Allo stato di Israele chiediamo:
1. di cessare la guerra a Gaza e il sostegno alle violenze dei coloni in Cisgiordania.
2. di cessare di occupare i territori palestinesi e di riconoscere l'esistenza dello stato di Palestina nei territori della Cisgiordania e di Gaza devolvendo immediatamente tutte le funzioni giurisdizionali ed amministrative e le risorse relative all'Autorita' Nazionale Palestinese - intesa come governo provvisorio dello stato di Palestina fino alle elezioni democratiche -.
3. di sgomberare immediatamente le illegali colonie nei territori occupati, restituendo quelle aree al popolo palestinese.
4. di concordare con l'Autorita' Nazionale Palestinese l'avvio di tutti i negoziati necessari per risolvere le molte questioni da affrontare come due stati sovrani in condizioni di parita'.
5. di essere una piena democrazia abrogando ogni misura legislativa ed amministrativa di discriminazione razzista.
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All'Autorita' Nazionale Palestinese chiediamo:
1. di assumere immediatamente il governo della Striscia di Gaza.
2. di adoperarsi ivi per l'immediata liberazione di tutte le persone rapite da Hamas.
3. di organizzare lo stato di Palestina indipendente e democratico.
4. di concordare con lo stato di Israele l'avvio di tutti i negoziati necessari per risolvere le molte questioni da affrontare come due stati sovrani in condizioni di parita'.
5. di adoperarsi affinche' nessuno stato arabo o musulmano possa piu' proseguire in una politica antisraeliana ed antiebraica prendendo abusivamente a pretesto la causa palestinese.
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All'Onu chiediamo:
1. un piano straordinario di aiuti per la Palestina.
2. una deliberazione dell'Assemblea Generale che riconoscendo i due stati di Israele e di Palestina vincoli tutti gli stati membri delle Nazioni Unite a cessare ogni politica di negazione dello stato di Israele, ogni politica di persecuzione antiebraica.
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Agli stati ed agli organismi politici sovranazionali d'Europa (l'Europa che e' il continente in cui si sono realizzati la bimillenaria persecuzione antiebraica e l'orrore assoluto della Shoah; l'Europa che e' il continente i cui principali stati hanno oppresso i popoli del resto del mondo con il razzismo, il colonialismo, l'imperialismo fin genocida) chiediamo:
1. di risarcire adeguatamente sia lo stato di Israele che lo stato di Palestina per le sofferenze inflitte ai loro popoli sia direttamente che indirettamente.
2. di contrastare il fascismo e il razzismo, l'antisemitismo e l'islamofobia, tutte le ideologie di odio e le organizzazioni che le praticano e le diffondono, e tutti i crimini conseguenti.
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Fermare la guerra.
Fermare le stragi.
Restituire la liberta' a tutte le persone che ne sono state private.
Riconoscere e proteggere tutti i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Salvare le vite e' il primo dovere.

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Classici
- Gogol', Opere, Mondadori, Milano 1994-1996, 2006, 2 voll. per pp. CXXXVIII + 1334 (vol. I) + LXXX + 1424 (vol. II).

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5080 del 15 gennaio 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
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